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"2011, fuga dagli atenei. Tra sfiducia e tagli il crollo delle iscrizioni", di Maria Grazia Gerina

Dopo il diploma ci si ferma: le matricole sono precipitate in 7 anni con un -9%. Storie di ordinaria esclusione tra la forbice ricchi-poveri e la chimera «borsa». Figlio di un operaio o figlio di un petroliere fa lo stesso», scrive Roger Abravanel, già consulente della McKinsey&Company e ora consigliere del ministro Mariastella Gelmini: quello che conta è il merito. Vallo a raccontare a Girolamo, figlio di un camionista e di una casalinga, nato e cresciuto a Palmi, Calabria. Girolamo ha vent’ anni, è perito informatico e vorrebbe laurearsi. Lo scorso settembre, appena diplomato, si è messo a inseguire la chimera di una borsa di studio e di un alloggio alla Casa dello studente di Cosenza. Alla fine, anche se aveva superato il test a numero chiuso, si è scoraggiato. E non si è più iscritto. Quest’anno ci riproverà, in proprio: «Facendo un po’ il cameriere, unpo’ il meccanico ho messo da parte 700 euro». Per mantenersi all’università da fuori sede, in un anno ce ne vogliono 7mila. Storie di ordinaria esclusione dall’università italiana. Sempre più ragazzi rinunciano in partenza. Se nel 2002, il 74,5% degli Under 20, presa la maturità, correva a iscriversi all’università, sperando in un futuro e un lavoro migliore, nel 2009 (ultimo dato disponibile) quella percentuale è scesa al 65,7%, facendo passare da 330mila a 293mila le matricole under 20. Nove punti percentuali persi in 8 anni: 38mila ragazzi che, usciti dalla scuola superiore, non ci hanno neppure provato. E la parabola discendente precipita letteralmente in certe province del Sud. A Catania, per esempio, dove appena il 46,4% dei maturi si iscrive all’università. Oppure a Cagliari, dove la percentuale è del 56,8%. Ma anche il Nord ha i suoi abissi.ASondrio, il rapporto tra diplomati e matricole è del 46,7%; a Bolzano, non va oltre il 37,3%. E chi si iscrive spesso resta indietro fin dal primo metro. In più, una buona fetta delle matricole – circa il 13,3% -, al termine del primo anno non ha superato neppure un credito e da matricola finisce direttamente nel limbo degli «inattivi ». Mentre ancora di più, il 16,7%, sono quelli che gettano la spugna dopo il primo anno. Cronaca di un’emorragia che dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni di chi governa il paese. Chi sono questi ragazzi che rinunciano all’università? Perché invece di proseguire gli studi decidono di fermarsi? L’ultimo rapporto Almalaurea lo dice esplicitamente. Tra le cause del calo di immatricolazioni, c’è «la crescente difficoltà di tante famiglie a sopportare i costi diretti e indiretti dell’istruzione universitaria » unita a «una politica del diritto allo studio ancora carente». Una sorta di tenaglia che si stringe attorno ai ragazzi. Da una parte, la crisi rende più severo il bilancio delle famiglie che non ce la fanno più a sostenere le spese universitarie. Dall’altra, il bilancio dello Stato, invece di potenziare le scarse risorse destinate alle borse per gli studenti, taglia i fondi per il diritto allo studio. Mentre in Germania o in Francia uno studente su quattro riceve una borsa di studio, in Italia nemmeno 1 su 10 riesce ad ottenerla. Su una popolazione di 1,8 milioni di iscritti, appena 150mila nel 2010 ne hanno beneficiato. E peggio ancora va per gli alloggi universitari che sono appena 41mila in tutta la penisola. Gli sbarramenti di reddito sono molto bassi, escludono non solo il ceto medio, e variano da regione a regione: sotto gli 11mila euro in Abruzzo, meno di 14mila in Molise, fino a 19mila in Piemonte. E anche tra gli idonei, 1 ogni 6 resta fuori. Gli esclusi nel 2010 erano 29mila su 179mila aventi diritto (il 16,3%). Un’ingiustizia anche qui diversamente distribuita. Più di 2mila esclusi in Abruzzo, dove solo il 55% degli idonei ottiene la borsa; 7mila in Campania, dove la percentuale è del 56%;4400 in Calabria, dove è beneficiato della borsa solo il59%, etc. Ladomandadovrebbe essere: comeincludere almeno loro? E invece il governo ha stanziato appena 26milioni per il prossimo anno, reintegrate a 97 milioni, dopo le proteste, per l’anno in corso.Comunque meno della metà dei 246milioni di euro stanziati nel 2009 e 50 milioni in meno della media degli anni precedenti. In compenso 10 milioni li ha destinati alla “Fondazione per il merito”, istituita sulla scia dell’Abravanel- pensiero. Ma chi se la merita un’università così. se non chi può permettersi di sostenerne i costi anche senza borsa? A questo proposito sono illuminanti i dati Eurostudent. I laureati tra i 45 e i 64 anni sono appena l’11% della popolazione generale (il 10% tra le donne) ma se guardiamo alla popolazione universitaria il 20%degli studenti universitari ha un padre laureato (il 17% una madre). Mentre appena il35-6%degli studenti hanno un padre o una madre con un titolo di studio medio-basso, percentuale che sale al62%nella popolazione generale. E solo il 28% ha un padre operaio (44% della popolazione tra i 45 e i 64 anni). D’altra parte la laurea ha perso attrattiva anche, anzi, forse soprattutto per le classi più svantaggiate. La disoccupazione, per chi ha la laurea triennale, è passata dall’11,3% del 2007 al 16,2% del 2009. E chi trova lavoro in un caso su due è precario. Mentre gli stipendi passano dai 1210 euro del 2007 a 1149 euro del 2009. Il deterioramento della condizione occupazionale dei laureati, insomma, è l’altro grande fattore che rema contro quello che è stato fin qui uno dei principali obiettivi di crescita del paese: estendere la formazione universitaria anche alle fasce di popolazione che ne erano tradizionalmente escluse. Trent’anni fa i figli della «classe operaia» (così nella classificazione di Almalaurea) tra i laureati erano l’1,5%, nel 2004 erano il 22,4%, nel 2010 sono il 25,8%. Una tendenza che, a leggere i dati delle immatricolazioni, sembra destinata a invertirsi di nuovo. E mentre in Europa i figli di genitori con un titolo di studio basso che si laureano sono il 17%, in Italia la percentuale è ancora all’8%. Che vadano a scaricare la frutta ai mercati generali, ha suggerito Brunetta, a quanti tra i giovani sono esclusi dal mercato del lavoro. La riforma Gelmini, rispetto agli esclusi dall’università, non fa di meglio: non ha neppure provato ad analizzare il problema.

L’Unità 16.07.11

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«Va bene il merito ma deve crescere il livello medio», di Ma.Ge.

Intervista a Andrea Cammelli-Il direttore di AlmaLaurea sui flussi nelle facoltà: «La laurea triennale aveva avvicinato una fascia socialmente debole che ora si allontana di nuovo». Un flusso di popolo che si era avvicinato all’università, con la crisi economica e in assenza di una politica per lo studio adeguata, è tornato ad allontanarsi ». Questo sta accadendo, secondo Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, che legge il calo delle matricole come la spia di un fatto storico allarmante. «E se non invertiamo nuovamente questa tendenza non ce la faremo a riprenderci dalla crisi». Perché i diplomati «fuggono» dall’università? «C’è un fattore demografico: cala la popolazione dei diciannovenni. Ma più basso in percentuale è anche il numero dei diplomati che si iscrive all’università. I media hanno fatto passare l’idea che sia tutta una parentopoli, antiquata, che non risponde alle esigenze del mercato del lavoro. E poi c’è la convinzione diffusa quanto errata che i laureati avranno le stesse difficoltà a trovare lavoro dei diplomati. Ma il calo di prestigio dell’università ha influito negativamente, soprattutto, su quella parte di popolazione tradizionalmente esclusa per ragioni sociale ed economiche». Sono soprattutto i più poveri a passare la mano? «Sì, l’introduzione della laurea triennale aveva avvicinato all’università una fascia di persone storicamente esclusa e socialmente debole, che ora sta tornando ad allontanarsi. Gli iscritti in meno sono soprattutto i giovani che vengono da famiglie socialmente ed economicamente svantaggiate. E la difficoltà economica crescente è anche una delle cause di abbandono dell’università al primo anno». L’università costa troppo? «Sì e il punto non è tanto il costo degli studi universitari quanto la sua sostenibilità per le famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla quarta settimana, né tanto meno a mantenere i figli agli studi. Il governo doveva intervenire con una politica per il diritto allo studio adeguata. Ma agli annunci non ha mai dato seguito». E adesso che fare? «Si deve investire di più sui giovani, che sono già pochi. Nel confronto internazionale, siamo al fondo scala per spesa per università e per ricerca. Se non invertiamo questa tendenza il paese non ce la farà a riprendersi. Negli anni di carestia il contadino taglia su tutto ma non sulla semina. Dovremo fare dei sacrifici, ma è l’unica cosa che possiamo fare se non vogliamo continuare a sprecare talenti». Il governo dice che bisogna premiare il merito e le eccellenze. «A me va benissimo il merito, anche se temo che venga usato da chi non ne conosce il significato, mi vanno bene le eccellenze. Ma il nostro obiettivo deve essere far crescere la soglia educazione di una parte consistente del paese. Dall’inizio degli anni ’80 i figli degli operai tra i laureati sono passati dall’1,5% a oltre 25,8%, ma tra i matricolati questa tendenza si va invertendo. Di questo dovremmo occuparci. I laureati in Italia, tra gli under 35, sono ancora 20 su 100 quando la media Oecd è del 35%. Non ci sono ricette contro la crisi se non si riduce questo ritardo storico.

L’Unità 16.07.11