Le grandi cifre della manovra economica significano, in concreto, uno sforzo simile a quello che fu richiesto da Romano Prodi e da Carlo Azeglio Ciampi per entrare nell’euro. L’aspetto più affrontato nel dibattito politico è che ai cittadini sarà chiesto assai poco quest’anno e nel 2012, moltissimo nel 2013 e nel 2014.
Una richiesta che arriverà dopo la fine della attuale legislatura, sia essa troncata da un voto anticipato l’anno prossimo oppure duri fino alla scadenza naturale. Il governo ha ribattuto che il profilo temporale era quello concordato con le autorità europee.
Per ragionare, è meglio astrarre un momento da questo problema. Se non si dovessero tenere elezioni politiche al massimo entro due anni, quale sarebbe la scelta migliore? Nelle previsioni sia della Commissione europea sia del Fondo monetario internazionale, l’Italia rischia di mancare di qualche frazione il suo obiettivo intermedio, portare nel 2012 il deficit pubblico sotto il 3% del prodotto lordo. Dunque un rafforzamento della manovra, non troppo oneroso, ci potrebbe mettere al sicuro dal contagio di un eventuale aggravarsi della crisi greca. Però possiamo sperare di cavarcela lo stesso; la Commissione europea ha altre gatte da pelare e conferma che il traguardo importante è quello del 2014.
Non si è creata alcuna controversia politica, invece, sui grandi numeri dell’intera manovra economica quadriennale; il Presidente della Repubblica ha fatto notare che discendono da obblighi europei. Tuttavia l’attenzione dei mercati finanziari si concentrerà sul contenuto concreto di quei numeri. E qui un punto delicato c’è. Il provvedimento presentato alle Camere contiene solo una parte, 25,3 miliardi su 40, della correzione complessiva di bilancio a regime nel 2014. Per quella parte, le maggiori entrate e le minori spese sono quantificate voce per voce, naturalmente con le incertezze che anche le previsioni più serie comportano. I rimanenti 14,7 miliardi sono affidati a una legge-delega su fisco e assistenza sociale di cui si ignora il contenuto e sulla quale una quantificazione precisa non è stata fornita dalla Ragioneria generale dello Stato, perché impossibile.
Non solo è rinviato il grosso dei sacrifici, ma in parte slitta la spiegazione di quali saranno. La riforma fiscale, si sa, dovrà essere a parità di gettito. Dunque i risparmi dovranno venire dall’assistenza sociale; ma la cifra appare davvero grande, anche facendo conto su un riesame molto rigoroso delle pensioni di invalidità. Una manovra così non avrebbe passato l’esame europeo, né tanto meno quello dei mercati finanziari. Allora, l’aumento della pressione tributaria che era stato tenuto fuori dalla porta rientra dalla finestra, come clausola di salvaguardia: nel caso la delega non venga applicata, scatterà un taglio lineare alle agevolazioni fiscali di tutti i tipi, con un aggravio totale appunto di 14,7 miliardi.
La manovra è dunque un po’ debole nei primi due anni, energica eppure poco chiara nei due successivi. E un legame tra i due aspetti c’è. Tagliare le spese è inevitabile e probabilmente benefico, in un Paese dove la qualità della spesa pubblica è molto bassa (un esempio: secondo la Banca d’Italia, negli anni passati abbiamo speso più degli altri Paesi in infrastrutture costruendone di meno). Purtroppo per ridurre le spese bisogna pensarci per tempo. Il riesame di come e dove lo Stato spende, per capire dove spreca, è stato ripreso da poco dopo due anni di interruzione. Perfino i tagli più giustificati talvolta vanno graduati, perché anche da incentivi o sussidi poco utili dipendono attività imprenditoriali e posti di lavoro. Se si rimanda, alla fine non si riesce a fare.
La Stampa 07.07.11