Forse l’Italia sta rischiando oggi più che nel 1992; pur se questi giudizi storici li dà solo il senno del poi. Allora, almeno, si poteva sperare nei partiti che fino a quel momento non avevano mai governato, o in forze nuove capaci di emergere dalla società civile. Per giunta, inseriti come siamo nell’unione monetaria europea, abbiamo lo sgradevole potere di coinvolgere in un disastro anche altri Paesi. Il 2011 offre meno speranze politiche e molto minori margini di manovra nell’economia.
Nelle ultime ore tutti sembrano essersi convinti che occorra uno sforzo nuovo. Al punto in cui siamo giunti, placare i mercati finanziari sarà arduo; quei mercati che ancora, a quattro anni dall’inizio della grande crisi, conservano l’inquietante forza di avverare sciagure che ritengono probabili. L’Italia deve risalire la china riconquistando una fiducia che i mesi scorsi le hanno fatto perdere. Non basta far meglio le stesse cose che si sono fatte finora.
Ad esempio, come misura per la crescita era stato gabellato a suo tempo lo «scudo fiscale», il cui fallimento sotto questo profilo viene ora riconosciuto perfino da esponenti della maggioranza. Occorre qualcosa che dia l’idea di una svolta netta, come hanno sollecitato, per una volta uniti, i rappresentanti delle imprese e dei lavoratori.
Tutti sono d’accordo che occorrono politiche per lo sviluppo. Non è detto che esistano ricette efficaci, pur se gli economisti gareggiano per dettarne. Al di là delle parole, delle molte scelte possibili non è facile sapere quali funzioneranno; e comunque occorrerà tempo per misurarlo. Nel breve termine, solo la novità e la radicalità possono aiutare. Purtroppo, quando le parti sociali si uniscono per chiedere, in genere sottintendono più spesa pubblica o meno tasse: ovvero ciò che non è possibile concedere adesso. Oggi, le parti sociali dovrebbero dare più che ricevere; possono farlo solo se la politica prende iniziative nuove.
Se pure la Commissione Europea dichiara «piena fiducia» nella manovra di bilancio 2011-2014 appena varata, questo vale per le grandi cifre del quadriennio; ai mercati è chiaro che il punto debole sta nel 2012, anno in cui risultano maggiori tasse per finanziare maggiori spese, mentre il rigore vero è rinviato all’anno dopo. Anticipare qualche misura non sarebbe male. In ogni caso, nell’immediato non c’è nulla da concedere; casomai, se si vuole, si può spostare il peso dei sacrifici dove incide meno sulla crescita.
Occorre dunque puntare su riforme che non costano. Riforme che possano dare speranza ai giovani, aprire nuovi spazi di iniziativa, rompere barriere. Il governo ora promette «una stagione di liberalizzazioni e di privatizzazioni», ovvero ciò che questo centro-destra non ha fatto né dal 2001 al 2006 né dal 2008 ad oggi; sarebbe un segnale ancor più significativo di fronte agli intrecci loschi tra politica ed economia che emergono in questi giorni. Meglio aprire nuovi spazi al mercato invece di continuare a scoprire scandali dove si fa mercato delle nomine negli enti pubblici in cambio di favori.
Perché un Paese vada avanti, occorre motivare i giovani. E’ difficile in una fase in cui i posti di lavoro continuano a calare, eppure sarebbe un’idea rivedere le tutele di chi lavora, un po’ meno a chi ha il posto fisso, di più ai precari dandogli una prospettiva di graduale inserimento e di carriera; come la Banca d’Italia ha suggerito più volte. Qui dovrebbero riflettere i sindacati; mentre gli imprenditori dovrebbero al contrario riconoscere che a frenare la produttività oggi sono spesso normative e prassi che congelano gli equilibri di potere all’interno delle aziende e tra le aziende sul mercato. Ma esiste materia per uno sforzo corale seppur non del tutto unanime – come ci fu nel 1992-93?
da www.lastampa.it
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