Erano cinquanta, li hanno chiusi nella sala motori in uno spazio senza oblò, senza aria, al buio. Non c´era spazio per muoversi e quella botola non si poteva aprire perché sopra c´eravamo noi. Apriteci, liberateci gridavano e il capitano ci diceva: soffriranno un po´, ma vedrete che sopravviveranno.
«Li hanno seppelliti vivi, li hanno ammazzati come cani i due scafisti: il “capitano” e la guardia armata di bastone, i due che avevano organizzato il viaggio». Sono le parole di uno dei superstiti dell´ultima tragedia del mare. Si chiama Paul, nigeriano, 24 anni, è il fratello di una delle vittime della carneficina che si è consumata a bordo del quindici metri partito da Tripoli e diventato tomba per 25 giovanissimi nordafricani (tra loro anche una donna). Paul è il fratello del ragazzo che, durante la traversata, è stato scaraventato in mare perché voleva liberare i 50 reclusi nella stiva, i disperati che stavano morendo asfissiati. «Morivano uno dopo l´altro, chiedevano aiuto perché volevano uscire da quel buco dov´erano stati stipati dagli scafisti appena siamo partiti dal porto di Tripoli sabato scorso». Quelli che si sono salvati, amici e parenti dei 25 intrappolati vivi, hanno ancora negli occhi il terrore di chi ha visto morire un proprio caro senza poter fare nulla.
Racconta Benjamin, un nigeriano che nonostante la mole fisica, è stremato come un bambino: «Era impossibile intervenire, quegli assassini hanno preso i primi 50 di noi e li hanno messi dentro quel buco, nella sala motori ed in una piccola cella frigorifera, in uno spazio di poco meno di sei setti metri quadrati, senza oblò, senza uno spiraglio d´aria, al buio. Poi hanno fatto salire a bordo tutti gli altri, oltre 200, addossandoci sulla coperta dove stavamo ammassati come sardine. Non c´era spazio per muoversi e quella botola che portava alla stiva dove c´erano gli altri 50 era impossibile aprirla perché sopra c´eravamo noi». E, dopo qualche ora di navigazione dalla stiva, trasformata nell´ingresso agli Inferi, si sono levate le grida di aiuto. «Apriteci, liberateci, gridavano, ma noi non potevamo fare nulla. Il “capitano” che guidava il barcone era irremovibile nell´ordinare all´altro bandito di non far uscire nessuno perché in coperta non c´era più spazio. Poi cercava di tranquillizzarci dicendo: “non preoccupatevi perché non moriranno, soffriranno un po´ ma arriveranno sani e salvi”».
Una bugia, neanche troppo pietosa:«I due scafisti sapevano la sorte alla quale stavano destinando quelli lì sotto, e ad un certo punto nella stiva è scoppiato il finimondo. Chi aveva più forza ed energie è riuscito ad aprire la botola anche se la guardia con il bastone tentava in tutti i modi di ricacciarci dentro. Una ventina di noi si sono salvati, riuscendo a trovare un posto, uno sopra l´altro, sulla coperta. Ma gli altri non ce l´hanno fatta, sono rimasti là, intrappolati come topi. Ma non erano topi, quelli erano uomini, i nostri amici, i nostri fratelli…».
Un ghanese di 26 anni mostra i lividi delle bastonate ricevute sulle braccia usate per difendersi. «Io e pochi altri siamo stati fortunati, abbiamo provato e riprovato ad aprire il portello e alla fine ce l´abbiamo fatta, siamo usciti all´aria aperta nonostante le bastonate, ci siamo salvati». E poi il ricordo va ai compagni perduti: «I primi a morire sono stati quelli vicini alla sala motori, caduti uno dopo l´altro. Noi abbiamo tentato in tutti i modi la via di fuga, ma era molto difficile, quella botola non si apriva, sopra c´erano seduti altri connazionali che non potevano muoversi tanto era piena la barca».
Benjamin non sa darsi pace, tra le lacrime racconta ai poliziotti della mobile di Agrigento ed ai volontari delle organizzazioni umanitarie di Lampedusa momenti drammatici e senza fine. «Sapevamo che il viaggio sarebbe stato pericoloso, sapevamo che molti altri prima di noi erano annegati in mare durante la traversata, ma mai avremmo pensato che si poteva finire così, sepolti vivi in pochi metri di barca». La scoperta che il barcone si stava trasformando in una tomba galleggiante è avvenuta a circa un miglio da Lampedusa quando finalmente l´imbarcazione è stata portata in acque sicure. «Quando siamo saliti a bordo per trasferirli sulle motovedette ed in banchina – racconta un militare della guardia costiera della motovedetta “CP282”- qualcuno ci indicava quella botola, ci dicevano che lì dentro ce n´erano altri. E quando l´abbiamo aperta, ho prima sentito un odore micidiale di cadaveri in putrefazione e poi quel cimitero, quei 25 corpi privi di vita, uno sopra l´altro, qualcuno con la testa rotta e molti altri con evidenti ferite alle braccia ed in tutto il corpo. Un orrore che in tanti anni trascorsi a soccorrere questi dannati del mare non avevo mai visto prima».
da La Repubblica