L’Italia, insieme all’Unione europea, è presa nella morsa di una transizione sistemica. L’esito è aperto. Ogni giorno, guardiamo agli indici di borsa e allo spread, la differenza tra il tasso d’interesse dei titoli di debito pubblico dell’Italia e i mitici Bund della Germania, come risultati di atti di avidità della speculazione finanziaria. Il nostro dibattito insiste sulla situazione di emergenza. Ma non siamo in una difficoltà imprevista. Siamo alla fine di una lunga stagione di scelte sbagliate, carenti, parziali.
Ed è l’insieme delle classi dirigenti italiane a essere stato inadeguato. La politica ha la responsabilità primaria. Nella cosiddetta “Seconda Repubblica”, il berlusconismo e il leghismo, tra i tanti guasti, hanno impoverito il senso civico e la già flebile attenzione all’interesse generale. L’individualismo amorale e il corporativismo di territorio hanno spinto indietro il Paese. Senza dubbio, il centrosinistra ha salvato l’Italia. L’ha agganciata all’euro nel ’96 e ha fermato la deriva sudamericana dieci anni dopo. Ma, non è riuscito a compiere le riforme necessarie. Oggi, per portare l’Italia sul sentiero dello sviluppo sostenibile, del lavoro di qualità per le giovani generazioni e dell’abbattimento del debito pubblico, vanno attuate riforme a vasto raggio. La strada di Berlusconi, Bossi e Tremonti, a danno dei più deboli e delle classi medie, porta a sbattere. Le invocate «proposte alternative» sono note. Sono, tuttavia, ancora disperse le energie etiche e politiche per una credibile strategia riformista.
I soggetti per le riforme sono in campo. I protagonisti – lavoratori, donne, giovani – del risveglio civico dell’anno scorso, culminato nelle elezioni amministrative di maggio e nei referendum per i beni comuni a giugno. Le associazioni del lavoro e delle imprese, tornate insieme, nonostante il ministro Sacconi, per una svolta di rilevante valore politico: il 28 giugno con l’accordo interconfederale sulla riforma del modello contrattuale e delle regole della democrazia nei luoghi di lavoro e mercoledì scorso, a parte la triste auto-esclusione della Uil di Angeletti, con il manifesto per «responsabilità e discontinuità». Non riescono, invece, a riconoscere le specificità del tornante storico importanti culture radicali della sinistra sociale. Ora, è responsabilità della politica, in particolare del Pd, orientare le energie in campo verso un programma di cambiamento progressivo etico, economico e sociale. Nella grande transizione in corso, si illude chi alimenta l’antipolitica per destrutturare il Pd e, così, eliminare l’ultimo ostacolo a una scorciatoia tecnocratica da far puntellare alle forze economiche e sociali riunite. Oggi, a differenza del ’92-93, la rotta non è tracciata. Oggi, siamo in una transizione sistemica e, purtroppo, l’Unione europea, soffocata da governi conservatori senza capacità di leadership su opinioni pubbliche spaventate, è confusa e incerta. È un esile ancoraggio nella tempesta. Oggi, in Italia e in Europa, va definita la rotta. Nel mare da attraversare, serve quindi una guida politica. E il Pd è, piaccia o meno, l’unico pilastro per reggere un’alleanza politica e sociale orientata a dare un futuro progressivo all’Italia.
Oggi, è il tempo per la politica progressista di agire per l’unità, il nome del giornale fondato da Antonio Gramsci per raccordare le forze produttive e intellettuali in un altro decisivo passaggio d’epoca. Unità per ricostruire le fondamenta della dialettica democratica e sociale. Unità per la dignità della persona che lavora. Unità in Italia e in Europa.
L’Unità 31.07.11