Quella di Giulio Tremonti sembra, a prima vista, solo l’ennesima disavventura di un politico finito nel tritacarne delle inchieste della magistratura e dei mass media. Una situazione che ormai in Italia è routine, a causa dello scontro tra i due «partiti» più attivi nel Paese: il partito cosiddetto giustizialista e il partito cosiddetto garantista. Il primo è animato da una visione ultra giacobina del mondo (prima ancora che della politica) e pretende da ogni essere umano una condizione simile a quella dell’Immacolata Concezione. Il secondo – non facendo mai alcuna distinzione tra peccati veniali e peccati mortali, ad esempio tra una corruzione e un affitto, o tra una tangente e una multa – mira a sostenere la tesi autoassolutoria del «tutti colpevoli e quindi tutti innocenti».
Sia i primi sia secondi hanno interesse a passare ai raggi x ogni minimo aspetto della vita, pubblica e privata, dei rivali. Per questo la «macchina del fango», per usare un’espressione ormai condivisa da destra e sinistra, è sempre in azione. Tuttavia, ci mancherebbe altro se la magistratura – e in diverso modo i cittadini – non potessero e dovessero chiedere conto ai politici della loro condotta, soprattutto quando c’è il sospetto di irregolarità.
E dunque è sacrosanto che anche il ministro dell’Economia sia chiamato a chiarire, come sta cercando di fare in questi giorni.
Fino a questo punto, insomma, il «caso Tremonti» avrebbe tutte le caratteristiche per essere catalogato come l’ennesimo capitolo del tormentone politico giudiziario cominciato nel 1992. Ma dicevamo che questa storia è così «solo a prima vista».
C’è infatti qualcosa di ben più inquietante delle «solite» storie di mazzette o di nero. Nella sua autodifesa Tremonti ha detto una cosa che ci ha lasciati di sale. Nella lettera al Corriere delle sera, nella quale ha cercato di assicurare di aver commesso errori ma non reati, il ministro ha detto che scelse la casa di Milanese per una questione di «privacy»; e nel colloquio con Massimo Giannini di Repubblica ha precisato lasciandosi scappare (facciamo finta che gli sia scappata) la «bomba». Ha detto che se ha preferito pagare di tasca sua un affitto piuttosto che alloggiare alla caserma della Guardia di Finanza, è perché là, dalle Fiamme gialle, non era più tranquillo: «Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso perfino pedinato». Ma da chi, e per conto di chi? Alla magistratura Tremonti aveva parlato di strane «cordate» e riferito di aver ammonito Berlusconi, ai primi di giugno, quasi prevedesse una campagna di stampa contro di lui: «Non accetterò che si usi contro di me il metodo Boffo».
Tremonti sta disperatamente cercando di giustificare la casa messagli a disposizione da Milanese? Oppure davvero alla Guardia di Finanza lo spiavano? Quale che sia la verità, c’è da restarne sconvolti.
Caso uno: Tremonti mente. Vuol dire che abbiamo un ministro che getta ingiustamente discredito su un corpo dello Stato e, indirettamente, sul suo presidente del Consiglio.
Caso due: Tremonti dice la verità. E allora vorrebbe dire che le istituzioni dello Stato sono lacerate da una guerra tra bande, che un ministro non può fidarsi neppure di un corpo di cui, peraltro, egli stesso ha per legge il controllo. Le caserme sono da sempre i luoghi più sicuri per i servitori dello Stato: rifugi per le più alte cariche istituzionali, e dimore dei magistrati in prima linea contro mafia e terrorismo. Certo ciascuno aveva le proprie preferenze: è noto ad esempio che Cossiga preferiva i carabinieri alla polizia. Ma non s’è mai sentito un uomo di governo che paga un affitto di tasca sua perché si sente in pericolo in una caserma.
In entrambi i casi è evidente che è in corso una faida tra istituzioni fatta a suon di colpi bassi. In entrambi i casi è evidente che tutto sia ormai fuori controllo, se un ministro che si sente spiato (o che dice di sentirsi spiato) non è in grado neppure di sostituire i vertici di un corpo che cade sotto la sua competenza. In entrambi i casi è lecito per noi porsi una domanda: ma da chi siamo governati?
La Stampa 30.07.11
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Il contrattacco della Finanza “Da almeno sette anni Tremonti non dorme da noi”, di Carlo Bonini
Nel 2004 il ministro dormiva nella foresteria della caserma di via Sicilia a Roma. La rottura nel dicembre del 2010 avviene su Milanese. Sostiene il ministro dell´Economia Giulio Tremonti di essere stato «pedinato» e «spiato» nel suo lavoro. E, a un certo punto, di non essersi più sentito tranquillo nemmeno durante i suoi lunghi anni da ospite di una caserma della Guardia di Finanza. La situazione era così pesante, denuncia il ministro, che l´ultima cosa che aveva voglia di fare «era di tornare a dormire in una caserma». E per questo di aver accettato nel febbraio del 2009, l´offerta dell´onorevole Milanese per l´appartamento di via di Campo Marzio. Adesso la Finanza contrattacca e dà la sua versione. Secondo fonti del Corpo, il ministro Tremonti non avrebbe più dormito in un letto di una caserma delle Fiamme gialle dal giugno-luglio del 2004. Sette anni fa. La Guardia di Finanza che doveva proteggere la sua sicurezza e la sua privacy ha violato l´una e l´altra? E quando? In che circostanza?
Per quanto la Guardia di Finanza è in grado di documentare, «l´ultima volta che Giulio Tremonti fu ospite con cadenza regolare di una struttura del Corpo fu quando, nei primi mesi dell´estate del 2004, alloggiava in una delle foresterie al secondo piano della caserma di via Sicilia». Nemmeno un chilometro in linea d´aria dagli uffici del ministero, in via XX Settembre. Da allora, la sua scorta di finanzieri, nei giorni in cui il ministro si tratteneva a Roma, lo accompagnava altrove. Alberghi, o residenze private. «Naturalmente – spiega una fonte qualificata del Corpo – tenendone traccia, come è normale e come la legge prevede per qualunque personalità sia sottoposta a un massimo livello di vigilanza come un ministro». Dunque, se si sta a quanto la Finanza sostiene di poter documentare, Tremonti, nel febbraio del 2009, quando accetta la proposta di Milanese, si è già liberato da molto tempo degli occhi e delle orecchie da caserma. E la scelta di un appartamento privato, sembra dunque legata al desiderio di una privacy assoluta che, evidentemente, neppure un albergo può garantire.
I due verbali ai pm Napoletani
Il 16 dicembre del 2010, Giulio Tremonti rende un primo interrogatorio alla magistratura napoletana. Due giorni prima, “Repubblica” ha dato conto che il suo consigliere politico Marco Milanese è indagato. Tremonti dunque è conscio di quanto sta accadendo e avrebbe l´occasione per riferire il sospetto sulla Guardia di Finanza che lo tormenta. Ma non ne fa cenno. Neppure indirettamente. La chiacchierata è sbrigativa. Gira intorno ad orologi di pregio che Milanese avrebbe acquistato a scrocco per farne dono al ministro. Passano sei mesi. Il 17 giugno, Tremonti siede nuovamente di fronte ai pm napoletani Woodcock e Curcio. Appena quattro giorni prima, il 13 giugno, Marco Milanese, nel suo ultimo interrogatorio, nel raccontare la guerra per bande che avvelena lo Stato Maggiore della Finanza, ha genericamente riferito che «il ministro aveva la percezione di essere seguito». Ma anche stavolta, Tremonti di pedinamenti e caserme non parla. Soltanto quando viene sollecitato con l´ascolto di un´intercettazione telefonica tra il capo di stato maggiore Michele Adinolfi e il presidente del Consiglio, decide di aprire uno squarcio su quanto accade negli uffici dello Stato Maggiore in viale XXI aprile. «Gli ufficiali, nella prospettiva di diventare comandanti generali hanno preso a coltivare relazioni esterne al Corpo, che non trovo opportune. C´è il rischio di competizione. (…) Ho suggerito al Comandante Generale di dare alcune direttive nel senso di avere un tipo di vita più sobria. Gli ho detto: “Meno salotti, meno palazzi, più caserma». I pm insistono. E Tremonti, allora, evoca l´esistenza di “cordate” nel corpo. E una, almeno, decide di “battezzarla” con il nome del suo capobastone, il generale Michele Adinolfi, intimo di Gianni Letta e del presidente del Consiglio. Nessun accenno a pedinamenti, a spionaggio ai suoi danni. Anzi, a Woodcock e Curcio, il ministro decide di offrire un´interpretazione morbida di quanto ha appena detto. «Ribadisco che non ho mai detto a Berlusconi che lui mi voleva far fuori attraverso la Guardia di Finanza».
Il grande gelo con il generale Di Paolo
16 dicembre 2010, 17 giugno e 28 luglio 2011. I ricordi di Tremonti si “drammatizzano” in assoluta coincidenza temporale con l´aggravarsi della posizione processuale e politica di Marco Milanese, con l´impossibilità di togliersi d´impaccio dalla vicenda di via di Campo Marzio con una scrollata di spalle, o rapide scuse. Soprattutto, dai ricordi del ministro viene cancellata una circostanza di cui, in queste ore, si raccoglie conferma da fonti qualificate del Comando Generale. La “rottura” tra il ministro e lo Stato maggiore della Guardia di Finanza ha una data: dicembre 2010. Un mese cruciale, perché è quello che precipita Milanese nell´abisso dell´inchiesta per corruzione del pm Vincenzo Piscitelli. Raccontano oggi della «furia di Tremonti in quei giorni». Dei modi bruschi che riservò al comandante generale Nino Di Paolo, nella certezza che quell´indagine fosse figlia della macchinazione di Michele Adinolfi, allora capo di Stato Maggiore.
La rottura della pace tra le due cordate
La “pace” tra le cordate di viale XXI Aprile si rompe allora, nel dicembre del 2010. Anche perché, come il ministro riferirà solo il 17 giugno di quest´anno ai pm, le cordate, appunto, sono due. E quella che lui non ha nominato a verbale fa capo proprio a Marco Milanese, nella persona del generale di corpo d´armata Emilio Spaziante, creatura di Nicolò Pollari, suo facente funzioni, già fedele alleato di Speciale nell´agguato a Padoa-Schioppa e Visco, nel loro breve intervallo all´Economia. Come Adinolfi, Spaziante lavora per diventare comandante generale della Guardia di Finanza nel giugno del 2012. E come Adinolfi, con il suo accordo e la benedizione di Milanese, ha convenuto nel giugno del 2010 che il primo Comandante generale proveniente dai ranghi del Corpo debba essere Di Paolo, perché “ufficiale più anziano” e più prossimo alla pensione. I guai di Milanese costringono i due generali a prendere le armi l´uno contro l´altro. E Spaziante, a verbale con i pm napoletani, carica Adinolfi anche di una seconda accusa per fuga di notizie. Quella sugli accertamenti fiscali a Mediolanum.
La guerra non è finita allora. Non finirà domani. Ma agli occhi degli Stati Maggiori, da oggi, il ministro Tremonti, a dispetto della telefonata fatta ieri al generale Di Paolo, non ne è più uno spettatore. Ma un protagonista.
La Repubblica 30.07.11