Giovani e disoccupati, Napolitano inascoltato
Nel mondo «civile» li chiamano Neet, «Not in Education, Employment or Training». Sono i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti né a scuola né all’università, che non lavorano e che non seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale.Un esercito invisibile di ragazzi in fila davanti ad una porta, in attesa che qualcuno apra.
La disoccupazione giovanile in Italia è un fenomeno che ormai assume dimensioni non più trascurabili. Quasi il 30% dei giovani italiani, secondo i dati Istat, è disoccupato contro una percentuale dell’8-9% della media europea. Il fenomeno assume cifre a dir poco preoccupanti se si guarda al Sud.
La crisi ha accentuato ancora la distanza tra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno. Il 46% delle donne residenti al Sud non lavora. Un dato che, già catastrofico di suo, è comunque contenuto dai fenomeni di scoraggiamento che hanno spinto molti lavoratori ad interrompere le azioni di ricerca, finendo classificati fra gli inattivi.
Le generazioni più giovani passano dalla precarietà alla disoccupazione, senza speranza. Ma non è solo una questione di numeri. La platea è talmente eterogenea da mettere in dubbio l’efficienza dell’intero sistema statale. Tra questi ragazzi ci sono i giovanissimi che hanno terminato la scuola dell’obbligo e lavorano in nero; ci sono i demotivati, che hanno smesso di cercare un impiego perché dopo il diploma non sono riusciti a entrare subito nel mercato; e, infine, ci sono i laureati che hanno acquisito competenze risultate subito obsolete per le richieste delle imprese. A questa fila di ragazzi si aggiungono, inoltre, coloro i quali un lavoro teoricamente l’avrebbero pure ma sono bloccati nella spirale degli stage, dei contratti a progetto, del lavoro interinale o, i più «fortunati», incastrati in un contratto di formazione e lavoro, che formazione non fa.
In Italia, il ragazzo che finisce le scuole medie non è libero di scegliere quale percorso intraprendere. Nella realtà, infatti, si trova davanti ad una scelta ben precisa: fare o meno l’università; i suoi coetanei europei possono scegliere quale liceo o quale scuola professionale frequentare e rimandare la scelta dell’università alla fine di questi percorsi, la cultura del nostro paese, invece, impone che solo i peggiori elementi siano avviati alle scuole professionali.
A 14 anni si è già predestinati: serie A o serie B. Anche dopo il liceo il ragazzo dovrà rassegnarsi a scegliere la facoltà meno richiesta o quella per la quale non esiste lo scoglio del numero chiuso. Finita l’università, invece, si inizia con la lotteria degli ordini professionali.
Ma come può uno stato costretto ad una manovra economica di oltre 70 miliardi permettersi uno spreco così importante di risorse? La risposta è semplice: non può. Il governo Berlusconi, nonostante l’ampio consenso ricevuto alle elezioni politiche del 2008, si è rilevato totalmente incapace di effettuare le riforme necessarie a garantire un futuro ai più giovani.
Tre anni fa Berlusconi e Tremonti sostenevano che la crisi in Italia non esisteva; il nostro paese, quindi, ha fatto meno dei suoi vicini europei, adottando misure che già nel breve periodo si sono rivelate inefficaci tanto a rilanciare l’economia quanto a difenderci dalla speculazione finanziaria. Oggi, invece, ci dicono che grazie a loro l’Italia non correrà il rischio di fare la fine della Grecia.
Puntiamo alla salvezza, la Coppa Campioni ce la possiamo scordare. Nel calcio quando un squadra non vince cambia allenatore. Questo governo e questa maggioranza non sono in più grado di portare alla vittoria questo paese. La crisi avrebbe dovuto incoraggiarci a fare di più, a tagliare la spesa pubblica e non ad aumentarla finanziandola con nuove tasse, a riformare gli ordini professionali, a cambiare il sistema pensionistico, a mettere in campo nuove liberalizzazioni, a ridurre il debito e non a scaricarlo sulle spalle delle giovani generazioni. Ma non solo: la crisi doveva essere occasione di far riavvicinare i giovani al terreno della politica, alla politica sobria, quella che risolve.
Doveva essere l’occasione per un nuovo patto generazionale che consentisse al nostro paese di ritrovare quell’unità che ha saputo dimostrare nei momenti più difficili della sua storia. Doveva essere l’occasione per investire sui più giovani consentendogli di fare la loro parte e non rilegarli al ruolo di spettatori paganti.
Poteva e doveva essere l’occasione per seguire, ancora una volta, il monito del presidente Napolitano: «Se non apriamo a questi ragazzi nuove possibilità di occupazione e vita dignitosa, nuove opportunità di affermazione sociale, la partita del futuro è persa non solo per loro, ma per l’Italia: ed è in scacco la democrazia». Era il 31 dicembre 2010, ormai un altro campionato.
da Europa Quotidiano 29.07.11