Com´è già successo nell´Italia del ´92, in uno dei tornanti finali della Prima Repubblica, di fronte al collasso del sistema politico tocca alle parti sociali propiziare la “svolta”. Oggi la storia si ripete. Di fronte alla crisi irreversibile del berlusconismo, che precipita il Paese nella palude, capitale e lavoro si uniscono e invocano «discontinuità».
Nonostante in Borsa e sui mercati piovano pietre sempre più pesanti, l´irresponsabile propaganda governativa continua a ridimensionare la portata degli attacchi speculativi contro i titoli della nostra piazza finanziaria e del nostro debito sovrano. Di fronte a questa dissennata disinformazione di massa, il comunicato congiunto di tutte le forze della rappresentanza economica e sociale ristabilisce il «principio di verità». C´è un problema europeo di fragilità strutturale dei Paesi periferici. C´è un problema americano legato al rischio-default della nazione guida della produzione e degli scambi. Ma l´Italia, proprio l´Italia, è sotto attacco, e non per caso. La sua economia non cresce, il suo debito non è sostenibile, e soprattutto la sua politica non è all´altezza del compito che la fase gli assegna: innescare un «immediato recupero di credibilità nei confronti degli investitori».
L´iniziativa straordinaria di questo «partito trasversale» dei ceti produttivi ha dunque un doppio significato. Un significato economico: dà la misura della drammatica emergenza che l´Italia sta attraversando. Un significato politico: mette in mora Berlusconi, e di fatto lo «liquida» in nome di un interesse generale che il suo governo non è più in grado di assicurare. Per questo serve una «discontinuità capace di realizzare un progetto di crescita del Paese», che garantisca «la sostenibilità del debito e la creazione di nuova occupazione».
Si potrà discutere a lungo sull´esegesi del termine. Ma evocare una «discontinuità», in questa congiuntura politica, vuol dire invocare la fine di questa disastrosa avventura berlusconiana, che sta scaricando sulla collettività un «costo» ormai proibitivo, tra manovre inique e recessive, differenziale tra Btp e Bund, e quindi aumento del costo del denaro per famiglie e imprese.
Come nel ´92, le parti sociali esigono un cambiamento radicale. Propongono una «supplenza», sostituendo una politica che non ce la fa. In questa chiave va letto il rilancio di un grande «Patto per la crescita» che coinvolga tutte le forze in campo. Esattamente come accadde quasi vent´anni fa, quando gli accordi di luglio sul costo del lavoro tra Confindustria e sindacati risollevarono un Paese distrutto dalle macerie di Tangentopoli.
Ma sembrano proporre anche una «reggenza», alludendo a una politica che ce la può fare. Governo «tecnico», affidato a Mario Monti? Governo di «salute pubblica», affidato a Giuliano Amato? Governo di «emergenza nazionale», affidato a Giulio Tremonti? Non importano la «formula» e il «nome». Quello che importa è che la richiesta delle forze sociali è ormai in campo. E tutti i protagonisti della partita in atto dovranno tenerne conto.
Dovrà tenerne conto il ministro dell´Economia, che a questa «rete» di forze guarda con attenzione e che da questa stessa «rete» di forze è stato spesso sostenuto. Tremonti ha il dovere ormai irrinunciabile di sgombrare il terreno (se è davvero in grado di farlo) dagli equivoci e dalle ambiguità: a proposito dei suoi rapporti con Marco Milanese, del «mercato di nomine» organizzato dal suo ex braccio destro nelle aziende controllate dal Tesoro, del suo presunto «contributo» al canone d´affitto della casa di Via Campo Marzio.
E forse dovrà tenerne conto il presidente della Repubblica, che ha sempre mostrato una sensibilità particolare per tutto ciò che fibrilla e si muove nella società italiana. Napolitano certamente avrà già valutato la portata di questa mossa trasversale, che vede sigle e corpi intermedi, spesso in conflitto tra loro, stavolta riuniti sotto le stesse insegne, quelle della «responsabilità». Organi della rappresentanza che, in questi tre anni, hanno palesato un colpevole collateralismo gregario nei confronti del governo (a partire dalla Cisl di Raffaele Bonanni) e che oggi recuperano tra loro quell´autonomia cercata invano dentro il Pdl.
L´unico che non terrà conto di questa svolta, perché non ne condividerà i contenuti e non ne accetterà le conseguenze, è Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio, ancora ieri, era totalmente immerso nelle sue consuete «turbe» giudiziarie: la poltrona di ministro della Giustizia affidata al fedele deputato che nel 2001 presentò una vergognosa norma salva-Previti, l´ennesimo abuso di potere architettato con la legge sul «processo lungo» che deve evitargli una sentenza sul Ruby-gate.
Mentre l´Italia cedeva sotto i colpi della speculazione internazionale, la Borsa bruciava 23 miliardi di capitalizzazione, l´allargamento degli spread oltre quota 300 punti ci caricava di un fardello ulteriore (a regime) di 48 miliardi di interessi sul debito, il premier inseguiva i suoi soliti fantasmi. La giustizia, le toghe, i processi… In questo abisso che si allarga, tra le preoccupazioni pubbliche degli italiani e le ossessioni private del premier, c´è la vera cifra del suo fallimento politico.
La Repubblica 28.07.11