«È un avvio di ferie tra i meno sereni che io possa ricordare. Si incrociano i dubbi sul piano di salvataggio per la Grecia, il clima di nervosismo che viene dagli Stati Uniti, le difficoltà che l’Italia ha comunque, a prescindere dagli effetti del contesto in cui ci muoviamo» . Presidente Amato, si evoca il ’ 92. «Non è così. Le situazioni non si ripetono mai. Infatti questa è diversa. Mi colpisce che forse non c’è nel Paese una sufficiente consapevolezza sulle dimensioni del rischio che corriamo» . Sta dicendo che la situazione è più grave rispetto a qualsiasi precedente? «Il grande cambiamento di questi anni è che il debito sovrano, una volta sinonimo di debito garantito, non è più ritenuto affatto tale. Vale per gli Stati quello che vale per le banche: ce ne sono alcuni che forse sono troppo grandi per fallire (e ciò nondimeno c’è qualcuno che ha cominciato a chiedersi se anche gli Stati Uniti non possano fallire); e comunque per quelli di piccole e medie dimensioni il rischio esiste. Vent’anni fa, di una società posseduta dallo Stato si diceva: non può fallire. Oggi è lo Stato stesso che viene visto come un possibile candidato al fallimento. Questo cambia enormemente le cose. Allontana non solo i fondi di investimento, ma anche i piccoli risparmiatori dai titoli di quegli Stati per i quali c’è questo timore. Sono certo che la manovra che è stata fatta, giusta o ingiusta che sia sul piano sociale, fino al 2014 ci fa stare tranquilli. Ma i mercati sono diventati sempre più esigenti e ansiosi e anticipano il futuro con una velocità che non avevo mai visto in passato. Se cominciano a ritenere che noi comunque al di là del 2014 non saremo in condizione di essere solvibili, la danza contro di noi può partire in ogni momento» . Qual è lo scenario? «I nostri titoli si svalutano. I punti base che segnano la distanza tra noi e i titoli tedeschi arrivano alle centinaia. A quel punto noi siamo sotto una soma che può diventare più forte della nostra schiena» . E la via d’uscita? «Io sono quello che ha detto, tempo fa: se un’imposta sulla ricchezza una tantum può abbattere il nostro debito per qualche decina di punti e tranquillizzare i mercati, non possiamo sottrarci» . Lo disse nel dicembre scorso al «Corriere» , e si scatenò una polemica sulla «patrimoniale di Amato» . «Continuo a pensare che, prima di arrivare a questa medicina da cavallo, dovremmo ritrovare l’impegno che in certi grandi momenti della nostra storia abbiamo avuto di lavorare pancia a terra e far produrre al Paese tutto quello che può produrre. La Grecia non ha molte risorse: ha i turisti; ha beni da privatizzare. Noi siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa dopo la Germania, noi abbiamo risorse di produzione di beni e servizi che pochissimi hanno. Se noi li sfruttiamo al massimo e riusciamo a portare il ritmo di crescita al 2%, diventiamo debitori assolutamente solvibili. Nessuno ne dubiterebbe più» . Certo. Ma come far ripartire la crescita? «Quando siamo cresciuti, come abbiamo fatto? Abbiamo lavorato. Do una risposta che è di una banalità unica. Uno si chiama le parti sociali e dice: che possiamo fare di più tutti insieme? Come vogliamo lavorare? Quanto siamo in grado di lavorare? Quanti ordini ci sono? Che potenziale non sfruttato di export abbiamo? Cosa può fare lo Stato per consentire a chi ha uno svantaggio competitivo sull’export di colmarlo? So che non sono cose facili. Oggi lo spread che colpisce i titoli di Stato colpisce anche le imprese finanziate o assicurate in Italia rispetto ai loro concorrenti. Varrebbe la pena di dire: colmiamo questo svantaggio competitivo. Sulla Stampa, Benedicta Marzinotto ha proposto l’uso dei fondi sociali europei per dare incentivi sul lavoro agli imprenditori» . Lei invece sul «Sole 24 Ore» , a proposito di misure per la crescita, ha parlato di “solite banalità”. A cosa si riferiva? «Vedo che l’indice di chi propone la crescita parte sempre da privatizzazioni e liberalizzazioni. Ma non sono affatto sicuro che siano questi gli snodi principali per noi. Le privatizzazioni che ancora restano da fare danno poco sia alla crescita sia alla riduzione del debito. Non è che l’Enel diventa improvvisamente produttivo il doppio di quello che è, se lo Stato ne colloca le azioni sul mercato. Se le liberalizzazioni sono quelle che abbiamo visto, tipo togliere l’ Ordine degli avvocati, siamo convinti che contribuiscano alla crescita? Serve caso mai liberalizzare le generazioni e dare responsabilità a chi ha sufficiente futuro da credere al futuro e da lavorare di più per produrre di più» . Lei pensa che si possa chiedere ai lavoratori un ulteriore sacrificio? «Un Paese con un debito come il nostro e con un ritmo di crescita così basso può chiudere il giovedì sera e riaprire il lunedì? Di Vittorio nel piano del lavoro della Cgil propose più lavoro, anche pagato a parità di salario, se gli altri avessero fatto la loro parte. Certo, una cosa del genere presuppone un clima, un impegno collettivo per la salvezza e lo sviluppo del Paese. Presuppone che chi lo chiede sia credibile agli occhi di coloro a cui viene richiesto. Presuppone un élite dirigente, non solo politica, che sappia smuovere il Paese» . L’Italia ha un’élite così? «Questa è la vera domanda. Quando sento alla mattina la rassegna stampa che sembra far dipendere il destino da Tremonti o da Monti, io con la stima che ho per entrambi i personaggi penso tra me e me: qui non è questione di Monti o Tremonti, qui è un’intera classe dirigente chiamata in causa e che se c’è deve battere non uno ma tre colpi. Dobbiamo fare appello a tutte le risorse di cui un Paese dispone, per far sentire tutti partecipi del destino comune, di una missione nazionale. Questo implica significativi cambiamenti» . Ad esempio? «I precari. Troviamo una terza via nei rapporti di lavoro, in modo che chi lavora in un’impresa partecipi della missione, e non faccia sentire l’impresa prigioniera di rigidità normative che la inducono a non assumere stabilmente nessuno e continuare la manfrina così umiliante di migliaia di contratti di lavoro per 8 mesi anziché per 12. Così priviamo una generazione della chance di assumersi responsabilità; e le nostre aziende restano troppo piccole, sen- za riuscire a esportare sui mercati extraeuropei. La soglia dei 15 dipendenti la teniamo in vita con disincentivi legali e fiscali. Come mi è capitato di dire l’altro giorno al Cnel, nel nostro mondo industriale sopra la panca la capra non campa ma crepa; essendo la panca quota 15» . Tagliare i costi della politica non gioverebbe alla credibilità delle élites? «È una cosa utile. Io credo ci sia molta panna montata nella presunta ostilità degli italiani per coloro da cui si fanno rappresentare. Non è così. C’è forse più fiducia di quanto queste vampate possono far pensare. È vero però che ogni volta che si chiama il Paese ai sacrifici vi sono problemi di giustizia distributiva che vanno assolutamente affrontati e risolti, altrimenti si alimentano queste vampate. È assolutamente giusto che le pensioni più elevate — la mia compresa — paghino un contributo di solidarietà per evitare che paghino le pensioni più basse. Questo tipo di tagli deve essere fatto anche per la politica. Ma la politica non diventi pavida e irrazionale» . Si riferisce all’abolizione delle Province? «La penso come Valerio Onida: non è vero che le Province vanno abolite. Un ente intermedio tra Comune e Regione serve. Solo che ce ne sono troppi: ci sono Province talmente piccole da essere intermedie non tra Comune e Regioni ma tra Comune e frazioni di Comune. La politica non deve farsi sommergere da questo coro che ha ragioni giuste ma arriva poi magari a risposte sbagliate. Se continua a essere ingigantito, mi toccherà scrivere al Corriere per proporre il ritorno all’elettorato attivo e passivo per censo, come unico modo di garantire grazie alla proprietà privata che non ci sia spesa di denaro pubblico per mantenere i parlamentari» . Sta scherzando, vero? «Certo. Capisco che ciò che non
si vuole è un sistema parlamentare di strapagati. Ma si sta spingendo talmente sull’acceleratore che, mi chiedo, se fosse vivo Marx, forse individuerebbe nel deputato il nuovo nemico di classe?» . Un governo tecnico non sarebbe forse più credibile di questo? «Non lo so. In politica vale il fattibile più che non il desiderabile. Il governo si sta rivelando affaticato. Però ha una maggioranza parlamentare che sembra continuare a sostenerlo. Ciascuno può ritenere utili soluzioni diverse, certo. Ma la situazione è questa» .
Il Corriere della Sera 27.07.11