Quante manovre ancora e per giungere dove? Qual è la direzione delle politiche economiche delle democrazie occidentali più o meno consolidate? I livelli di riflessione che queste domande suggeriscono sono due, uno relativo ai caratteri delle specifiche scelte nazionali e uno relativo alla dimensione globale o, se si vuole, sovrannazionale. A proposito del primo livello, osserviamo che le manovre si ripetono a scansione regolare perdendo il carattere di eccezionalità con il quale sono proposte, giustificate e approvate. Inoltre, si assomigliano un po´ tutte. Se si va a rileggere quanto scrivevano quotidiani e riviste specialistiche nel giugno 2010 a commento della manovra economica del governo per i successivi due anni e mezzo, ci si accorge che anche allora si usava l´espressione “lacrime e sangue”.
Come allora, anche in questi giorni in occasione della nuova manovra “lacrime e sangue”, si è assistito a un dualismo altrettanto e forse più radicale con un “gioco” che ha certamente agevolato la velocità della decisione. Come allora, anche questa volta, la manovra ha dosato sacrifici in proporzione alla forza politica dei settori sociali interessati: colpire genericamente tutti significa colpire chi è già più debole e, inoltre, senza lobby protettive. Come allora, anche in questa occasione la manovra è depressiva e non tonica rispetto alle potenzialità di crescita della società, le quali sono affidate alla speranza in una provvidenziale congiuntura favorevole dell´economia internazionale e alle libere forze del mercato – si “spera” che queste ultime non scaglino la loro maledizione inappellabile come divinità dell´Olimpo. Oggetto di una fede che rassomiglia più a un talismano psicologico che a una previsione ragionevolmente realistica.
In sostanza i governi, il nostro tra questi, si stanno da diversi anni allenando a fare manovre economiche e a mettere in campo le strategie giustificative più sicure con lo scopo di scongiurare l´ira funesta di potenze senza volto. La differenza consiste essenzialmente nella decisione di chi far più pagare, quanto e come. I governi italiani di questi ultimi anni si sono specializzati a sacrificare il futuro, forse perché non ha lobby o forse perché sperano che la proverbiale capacità degli italiani di farcela in qualche modo farà il miracolo. Ecco allora che i tagli sulla scuola e l´umiliazione di chi è portatore forzatamente inattivo di forza lavoro sono i due pilastri consolidati sui quali si costruiscono le manovre economiche.
Se è difficile riconoscere l´identità di una manovra rispetto all´altra poiché tutte si assomigliano nei caratteri essenziali ancora più difficile cercare di comprendere quale sia il corso degli eventi che con queste manovre si intende proporre o evitare, suggerire o scongiurare. Il livello di riflessione si dovrebbe spostare a questo punto oltre gli stati nazionali. Fino a quando ancora il nostro come gli altri Paesi dovranno fare “manovre lacrime e sangue”? Qual è l´obiettivo e a che cosa esattamente si aspira? La manovra, questa come le altre che l´hanno preceduta, non si limita solo a togliere e tagliare ma anche a promettere privatizzazioni nella proprietà e nella gestione di servizi pubblici: dall´elettricità ai trasporti, ma non solo. Servizi e beni che fino ad ora erano stati con più o meno successo tenuti al riparo dal mercato si chiede prepotentemente che siano dati in toto al mercato. Sembra che i mercati non sopportino la concorrenza del pubblico su beni che possono essere generatori di ricchezza e profitto. Tutto ciò che è economico è per ciò stesso oggetto del mercato libero. Si tratta di decidere, ovviamente, che cosa mettere nel paniere “economico”.
Fino a qualche decennio fa sarebbe per esempio risultata una bestemmia, in Europa almeno, che la salute fosse trattata come bene economico. Oggi la maggioranza degli Stati europei sembra meno convinta che questa distinzione valga ancora (del resto la tecnologia e la farmaceutica, settori che afferiscono a multinazionali potentissime, impongono al governo della sanità pubblica limiti notevoli). Lo stesso vale per altri settori. Negli Stati Uniti perfino la repressione e le carceri sono diventati beni economici gestibili dalla “società civile” e fonte di guadagno (le multinazionali fanno grandi profitti con il lavoro asservito dei detenuti mentre le congregazioni religiose si alimentano gestendo parte dei servizi carcerari).
La lotta tra mercato libero e bene pubblico sembra sia la vera protagonista di questo permanente stato di default contro cui le democrazie di tutto il mondo stanno combattendo. Con uno svantaggio nemmeno troppo implicito: non possono, se è vero che sono bastioni di libertà, sconfessare o anche solo limitare la libertà di mercato. Soprattutto non possono più definire che cosa debba restare fuori del mercato – un potere che la politica si era arrogata nei decenni della ricostruzione postbellica e che andava sotto il nome di “stato sociale”. La democrazia è ora invitata senza nemmeno troppa gentilezza a ritirarsi dalla società; il potere della scelta politica deve autocircoscriversi in quei settori che tradizionalmente sono dello Stato: la sicurezza individuale (della vita e della proprietà) e la sicurezza delle frontiere. Le ambizioni di usare lo Stato per creare una società democratica devono fermarsi qui. E le manovre che di anno in anno vengono imposte (preferibilmente in estate quando tutti siamo un po´ più distratti e smobilitati) sono come tasselli di questo mosaico in formazione di ridescrizione dell´identità delle società democratiche. La critica giusta sul carattere della manovra per l´ineguale e quindi iniqua distribuzione dei sacrifici e dei costi dovrebbe fare uno sforzo ulteriore ed estendere l´obiettivo oltre i confini dei singoli Paesi e delle singole manovre per farci vedere, se possibile, la mutazione epocale in corso.
La Repubblica 26.07.11