attualità, memoria

"Genova, la sfilata dei 30mila che non vogliono dimenticare", di Jolanda Bufalini

Tramutare il doppio incubo in festa è stato l’obiettivo del corteo di Genova, dieci anni dopo. Sono venuti in tanti, da Milano e dalla Val di Susa, dalla Liguria e da Torino e dal resto d’Italia, dovevano essere 10mila nelle previsioni degli organizzatori, sono molti di più, forse 30mila, si snodano lungo lo stradone che da Sampierdarena si snoda fino a Caricamento, al porto antico di Genova, reso chic dal restyling di Renzo Piano. Doppio incubo e ferite aperte, della città che non ha creduto ai segnali di pace e che ha chiuso le saracinesche dei negozi lungo il percorso di quattro chilometri. E delle migliaia di persone che vissero quella incredibile «notte cilena». «Festa» dice la Questura che ha organizzato una presenza discreta delle forze dell’ordine, festa quella del concerto conclusivo, o del gruppo di ragazzi con i capelli rasta che tirano due calci a un pallone, aspettando che si formi la testa del corteo. O di Giacomo e Alba, arrivati da Milano, avevano 20 anni nel 2001, sono tornati finalmente contenti, perché a Milano un po’ di vento di cambiamento si sente. Ma in realtà, per quanto ci si sforzi, non è ancora tempo di gioire, troppo lutto e troppi traumi che non hanno ancora avuto dallo stato democratico le scuse, le risposte che aspettano. Haidi e Giuliano Giuliani, Paolo Fornaciari, Lorenzo Guadagnucci, giornalista picchiato nel sonno, alla Diaz, Arnaldo Cestaro, classe 1939, con la fotografia che lo mostra sulla sedia a rotelle, dopo le botte alla Diaz, si tengono sottobraccio e aprono il corteo, subito dopo viene lo striscione con lo slogan collettivo della manifestazione: «Loro la crisi noi la speranza».

LE BANDIERE CORSARE DEI NO TAV
Poi la selva delle bandiere “corsare” No Tav, sullo striscione della «Valle che resiste» c’è Obelix mentre si chiama Max l’Obelix valliggiano che lo sostiene, con pancia e treccine d’ordinanza, più una bottiglia di vino bianco a fare compagnia. La Val di Susa ha in questo momento l’onere e l’onore di rappresentare coloro che pensano «che un altro mondo è possibile». Claudio Gasparro fa il falegname a Torino, da anni recupera, per lavorare, il legno buono, non usa truciolati, «mi pigliavano per matto, ora qualcuno comincia a darmi ragione». La storia della Val di Susa la conosce molto bene, dice: «Non è un caso di Nimby, non nel mio cortile». Il problema è che «quell’investimento di 20 miliardi deciso negli anni Ottanta oggi è incomprensibile». «Quei soldi non ci sono, tutto sembra finalizzato a intascare i 640 milioni di finanziamento che potrebbero finire nelle tasche di non meglio identificate lobby, magari mafiose o ’ndranghetiste» e tutto questo con uno sconvolgimento ambientale gigantesco, 20 anni di cantiere, Cita gli studi di importanti docenti trasportisti, «Marco Ponti del Politecnico di Milano, Tartaglia del Politecnico di Torino che contestano l’ipotesi di un aumento esponenziale del trasporto di merci e persone previsto nel 1985», oltre tutto «non è nemmeno chiaro se si tratti di una linea merci o una linea passeggeri, che richiedono binari diversi». In compenso «Chiomonte è diventato un fortino militarizzato, con il filo spinato, ora arrivano 140 alpini dall’Afghanistan, e lì non esiste cantiere, c’è la zona archeologica, insediamenti neolitici, della Maddalena, il museo usato come base».
QUELLI CHE NON C’ERANO Dietro al folto gruppo della Val di Susa lo striscione di giovanissimi anarchici milanesi, loro non c’erano 10 anni fa, hanno 15, 14, 16 anni. E sono i più arrabbiati, «Nessun rimorso, Milano non dimentica», dice il loro striscione. C’era invece Danilo Oliva, del Cap, l’autorità portuale genovese, accompagna il camioncino dei migranti organizzato dall’Arci: «Io c’ero anche nel 1960», ricorda. 30 giugno 1960, quando Genova, città medaglia d’oro della resistenza, insorse contro il congresso del Msi e il sostegno neofascista al governo Tambroni. «Ci furono scontri duri allora, ma ciò che è accaduto nel 2001 fu molto più brutto, la notte della Diaz, la morte di Carlo Giuliani sono un caso unico nella storia di Genova, nemmeno nel ’60, quando c’era la famosa celere si è visto qualcosa di simile».
IL CONTRIBUTO DELLE PIAZZE
Sfila Legambiente, sfilano organizzazioni cattoliche, c’è il movimento «noi siamo Chiesa», c’è Flavio Lotti, della Tavola della pace. Ci sono gli striscioni dei comitati delmovimento dell’acqua pubblica, arrivano dalle piazze tematiche che nel primo pomeriggio si sono svolte nelle piazze di Sanpierdarena. Oggi ci sarà l’assemblea conclusiva, quella che cercherà di stabilire una connessione fra le diverse istanze che sono confrontate qui a Genova nel mese di luglio, migranti e rivolte sull’altra sponda del mediterraneo, sindacati e ambientalisti, giuristi del Legal Forum e teorici del km 0, per vedere se, con il vento che cambia, un movimento c’è.
Cammina solitario Evandro Fornasier, psicologo, che allora fu portato a Bolzaneto, tenuto ore in piedi con le mani alzate, insultato, picchiato. «Ero venuto come tanta gente libera che in quel giorno venne a Genova, eppure ancora oggi dobbiamo subire la criminalizzazione, l’identificazione con i black bloc, come se ciò che è accaduto fosse colpa nostra». Le verità su quei giorni, dice, «sono state sostanzialmente raggiunte, sentenze importanti hanno condannato il capo della polizia e i vertici di tutti i corpi», eppure «non c’è un percorso di risarcimento, le parole si consumano nel
vuoto». Le scuse mai arrivate dallo Stato sono, probabilmente, «fuori tempo massimo». «Noi abbiamo dovuto imparare a convivere con ferite rimaste aperte» ma la cosa più grave è che le «nebbie di Genova», quella «catena di comando che non si è mai chiarita», si allungano su un paese che «ha maturato altri gravi problemi». Quella in cui viviamo è «un’Italia che soffre, dove è aumentata la precarietà e la disuguaglianza, dove sono state fatte leggi sulla prescrizione ma non è stata fatta la legge che vieta la tortura».
UN PAESE NON ANCORA NORMALE
Quello in cui viviamo, pensa chi è stato a Genova nel 2001, non è ancora un paese normale, un paese che ha riconosciuto e superato le sue difficoltà, «è un paese che va alla deriva».Dove sono state raggiunte delle verità magari parziali ma importanti, ma «non è stata tratta nessuna conseguenza».

L’Unità 24.07.11