Sono l’unica speranza dell’università italiana. Ma la riforma Gelmini li sta espellendo in massa. Chi fugge all’estero, chi lascia la ricerca per un lavoro in azienda… Effetto dei tagli e della burocrazia: le assunzioni sono bloccate. Per bloccare l’approvazione della legge Gelmini sono saliti sui tetti, hanno smesso di insegnare, si sono aggrappati ai monumenti simbolo del paese, hanno assediato il parlamento. La storia, nelle aule di Camera e Senato, si sa come è andata a finire. Ma nelle università, a distanza di otto mesi dall’approvazione della riforma che non avrebbero voluto, che cosa sta succedendo? «Sentinella a che punto è la notte?»: lo abbiamo chiesto prima di tutto a loro, ai ricercatori italiani, precari e non, giovani e meno, che sul destino dell’università in Italia hanno vegliato forse come nessun altro. Che «fine» sta facendo l’università? E che «fine» stanno facendo loro, a cominciare dai precari? Con loro che dovrebbero rappresentare il futuro dell’università la riforma Gelmini sta mostrando il volto peggiore. Altro che le 1500 assunzioni per tre anni promesse durante la discussione d’aula. I fondi per quella assunzioni non ci sono. Mentre la paralisi degli atenei, persi dietro ai tagli e alla «nuova» mastodontica burocrazia, ha di fatto determinato il blocco delle assunzioni e dei contratti. E ciascuno si salva come può. Chi fugge in Francia o negli Stati Uniti, quasi in esilio, chi si ritrova senza contratto o dopo dieci-quindici anni si decide ad abbandonare la ricerca per un posto in azienda. Un’espulsione di massa. Chi resta, a cominciare da quei ricercatori a tempo indeterminato, che hanno rappresentato lo zoccolo duro della protesta nell’autunno scorso, continua la battaglia. Assemblee, moti referendari, flashmob. Un conflitto meno visibile, perché dalle piazze si è spostato all’interno dei singoli atenei, alle prese con la riscrittura degli statuti, imposta dal ministero. Ma è solo l’inizio. «Le reti che si sono create in questo anno sono molto forti». Scatta la sua fotografia in mezzo al caos Francesca Coin, la ricercatrice che a Vieni via con me lesse l’elenco delle priorità per lei e per i suoi colleghi sui tetti: «E la situazione è troppo grave, nel paese e nell’università, perché la mobilitazione, che è continuata in questi mesi, non sfoci in autunno in una nuova azione collettiva».
Storie dal disastro Alessandra Contino,35 anni, nove dei quali dedicati alla ricerca sulle malattie tumorali resistenti ai farmaci, ha vinto l’ultimo concorso a tempo determinato, nella sua città, a Bari, proprio mentre la riforma Gelmini approdava in parlamento. Dieci mesi dopo, sia lei che il primo classificato sono ancora senza lavoro. Assunzioni bloccate. E nessuno sa dire fino a quando. L’ateneo di Bari non può spendere nemmeno un euro in nuovi contratti. La legge, quando superi il 90% del budget in stipendi e spese fisse, lo impedisce. Nelle stesse condizioni si trovano altri 35 atenei. Era spasso come Alessandra, che ora sta per partire negli Stati Uniti («vado dove mi viene riconosciuto un po’ di merito per quello che faccio»), sono rimasti molti dei 1300 vincitori di concorso «ante Gelmini». Persino i rettori hanno chiesto una deroga per assumere almeno loro. Ma il governo non sembra intenzionato a concederne. Anche se all’origine dell’affanno ci sono proprio i tagli pesantissimi al fondo di finanziamento ordinario decisi con le ultime finanziarie. Si è passati nel giro di tre anni dai 7,4 miliardi del 2008 ai 6,5 miliardi programmati per il 2012. Un definanziamento senza precedenti. Unito alla decisione di non riconoscere quest’anno, nel milleproroghe, la possibilità di considerare extrabudget alcune voci di spesa, come negli anni precedenti. Se le regole (o le risorse) non cambiano, le porte delle università resteranno chiuse per anni. La legge Gelmini in teoria prevede una lunga trafila di contratti. A tempo determinato per 3 anni più 2. E poi, sempre a tempo determinato, per altri 3 anni. A quel punto il ricercatore senior, si può ben dire, se l’ateneo avesse soldi, dovrebbe essere assunto a tempo indeterminato come professore associato.
Ovviamente, dopo aver ottenuto l’abilitazione: passaggio obbligato del percorso a ostacoli. Peccato che in parlamento il ministro non abbia neppure indicato con quale criterio verranno valutati i candidati e formate le commissioni esaminatrici. Come osserva il parere di minoranza al decreto delegato appena licenziato dalla Commissione Cultura della Camera. Uno su 47: gli altri, necessari all’applicazione della riforma, mancano ancora all’appello. Lentezza burocratica e risorse negate sono due trappole parallele.
«In pratica l’unica cosa che possono proporre in questo momento gli atenei sono gli assegni di ricerca», spiega Luca Schiaffino, quarant’anni. Uno dei ricercatori più attivi del Coordinamento precari dell’università. Fino a febbraio, studiava la «catalisi asimmetrica», passando da un assegno a un contratto a termine. La riforma Gelmini ha segnato per lui uno sparti-acque. Adesso lavora in Banca d’Italia: «E sono uno dei fortunati» (nel tempo libero, collabora con il Pd alla stesura di emendamenti e proposte alternative). Anche Tiziana Nardi, 33 anni, biologa, faceva ricerca. Studiava i processi di fermentazione del vino a Padova. E, visto l’argomento, riusciva ad ottenere anche finanziamenti esterni. Sperava almeno di poter ottenere uno di quei contratti a tempo determinato previsti per i ricercatori dalla riforma Gelmini. Quando ha capito che avrebbe avuto al massimo un altro assegno di ricerca e niente più, ha detto basta. Adesso lavora per una multinazionale canadese. «Sono il prodotto perfetto» dell’università italiana, ha scritto al ministro Gelmini. Perfetto e quindi espulso.
«Da qui al2015 andranno in pensione 12-13mila professori ma non ci sarà nessun turn over: una cupola sempre più ristretta di ordinari e una platea sterminata di ricercatori a tempo determinato, ricattabili, questo è lo scenario che disegna la riforma Gelmini». Lo ha spiegato anche ai suoi studenti Piergo Graglia, 48 anni, biografo di Altiero Spinelli e ricercatore a tempo indeterminato a Milano. È uno dei primi fondatori della Rete 29 aprile. «Avendo un contratto siamo meno ricattabili, per questo forse abbiamo alzato la voce più degli altri. Il presidente della Crui una volta ci ha detto: che dobbiamo fare con voi? Mica possiamo gassarvi».
C’è chi ancora non si è scoraggiato. Ma forse perché è molto giovane. Come Martino Gagliardi, 31 anni, che lo scorso autunno ha portato la protesta anche in Svizzera, sul tetto del Cern di Ginevra. «Gli altri ci guardavano un po’ stupiti, hanno sempre quella faccia quando gli raccontiamo le prospettive che abbiamo in Italia». Borsista al Cern, in Francia gli hanno già offerto un contratto a tempo indeterminato. In Italia, l’università di Torino gli ha dato un assegno di ricerca (1200 euro) che scade a novembre. «Almeno quello dovrebbero rinnovarmelo».
Per ora, in questo paese, non può sperare di più.
L’Unità 22.07.11