Le strutture di accoglienza e assistenza per le donne vittime di soprusi, costretti a ridurre o chiudere le proprie attività. Su 58 affiliati se ne contano oltre 40 in difficoltà. Quelle più a rischio sono le case rifugio, dove si nascondono le donne in pericolo di vita. Il ministero delle Pari Opportunità ha fatto piazza pulita. L’Italia è un Paese per donne? Pare proprio di no. La conferma arriva oggi dopo un anno di richieste, reclami e proteste: uno dopo l’altro chiudono i battenti i Centri Antiviolenza sparsi su tutto il territorio nazionale, soffocati dai debiti per i tagli e per l’assenza di finanziamenti già stanziati, senza alcun intervento da parte delle istituzioni per salvare le strutture esistenti, che da anni sostengono donne e minori in difficoltà.
Spariti diciotto milioni. Ma che fine hanno fatto i 18 milioni di euro previsti dalla precedente finanziaria e destinati al Piano Nazionale contro la violenza di genere? Risponde Alessandra Bagnara, presidente di D.i.Re, 1 Donne in rete contro la violenza Onlus, associazione che raccoglie in un unico progetto 58 associazione di donne che affrontano il tema della violenza maschile secondo l’ottica della differenza di genere. La presidente la domanda l’ha posta direttamente alla ministra Carfagna, con una lettera a lei indirizzata. “Il denaro – spiega – doveva essere redistribuito sul territorio nazionale e gestito dal ministero”. Peccato che poi questi soldi si siano persi per strada.
Dove sono finiti quei soldi? Prova a rispondere Simona Lanzoni, Responsabile Progetti per la Fondazione Pangea Onlus 2, che conferma: “I soldi erano stati stanziati dal governo Prodi. Poi, la Carfagna, su suggerimento di Tremonti, li ha spostati. Dove non si sa. L’unica cosa certa è che tre di quei 18 milioni sono finiti sull’edilizia, a favore della ricostruzione de l’Aquila”.
Da Nord a Sud. Lo scenario è sempre quello. I centri antiviolenza sono al verde, costretti a ridurre o chiudere le proprie attività. Su 58 affiliati, la D. i. Re ne conta oltre 40 in difficoltà. Quelle più a rischio sono le case rifugio, dove si nascondono le donne in pericolo di vita. Il ministero ha fatto piazza pulita. “A Viterbo il centro Erinna si è visto revocare il suo mandato, rinnovato per tre anni nel 2009, un anno prima della sua conclusione, febbraio 2012, dal presidente della provincia Marcello Meroi, che – pur avendo verificato di persona le condizioni del centro – ha fatto sapere che sarà indetto un bando per permettere anche a altre organizzazioni di partecipare, senza però preoccuparsi né di far concludere il lavoro al servizio già presente sul territorio e senza preoccuparsi del buco che l’utenza avrà nel periodo di transizione, che vedrà spazzato via anni di lavoro e di esperienza sul campo”.
Le città più colpite. “A Messina – spiega la Bagnara – le feste e le sottoscrizioni non bastano più a colmare un sistema in cui gli enti locali sono ormai bloccati e non finanziano più niente a nessuno, e dove le donne violentate e maltrattate vengono considerate secondarie rispetto a altri problemi presenti nel territorio”. Poi c’è Belluno “dove non esiste una legge per i centri antiviolenza e dove anche la casa rifugio è stata chiusa e dove i progetti per i bambini vengono finanziati da privati”. Catania, “dove ormai si vive alla giornata, in quanto gli enti locali fanno finta di non riconoscere il problema, e dove già nel 2007 è stata chiusa la casa rifugio”. Roma, “dove il centro Lisa non ha più i soldi per pagare l’affitto ed è sotto sfratto perché l’Ater non riconosce lo scopo sociale della Onlus e quindi non dà la possibilità di riduzione del canone malgrado la tipologia di lavoro che viene svolto. Gorizia, “dove i finanziamenti sono stati drasticamente tagliati” e, infine, anche Cosenza, “dove l’anno scorso è già stata chiusa la casa rifugio e dove si attende l’esito del bando regionale che è stato presentato dopo un periodo di assenza totale di qualsiasi sostegno pubblico”.
Tra moglie e marito non mettere il dito. Il nodo è nel familismo. “Il governo attuale ha inaugurato una politica volta alla mediazione all’interno della famiglia. Si spinge – spiega Lanzoni – affinché le donne vittime di violenza restino in casa, risolvano i problemi assieme all’uomo. Ma, a quanto pare, non leggono nemmeno le statistiche 3. Una politica così è fallimentare”. Non solo. “Il governo non riconosce più la differenza tra la violenza sulle donne e quella sugli esseri umani in generale. La tendenza – continua la Lanzoni – è ad annullare l’approccio di genere. Vorrebbero parlare di diritti umani in generale, ma non capiscono che il problema femminile è specifico”.
Il problema è politico dunque. Quei 18 milioni sarebbero dovuti servire per implementare gli sportelli già esistenti e costruirne di nuovi nelle Regioni dove ancora mancano strutture di accoglienza per le donne in difficoltà. In Molise, per esempio. Anche in questo caso, si era parlato di progetti, di aprire bandi e destinare parte delle somme a scopi specifici. E invece, “il Governo e gli enti locali italiani continuano a tagliare fondi su un problema che non è né individuale né di sicurezza ma collettivo e di informazione, e su cui lo stesso Parlamento Europeo ha dato chiare direttive sul sostegno degli Stati Membri alle Ong che gestiscono i centri antiviolenza attivi sul territorio”.
Servono risorse. Sì, ma quante? “Dipende dalle dimensioni del Centro, ma per Latina, un piccolo centro rispetto ad altri, direi quasi 200mila euro l’anno”. Il ragionamento però può essere ribaltato. Quanto costa allo Stato non intervenire? “Le donne che cercano assistenza – riprende la Lanzoni – sono spesso pagate in nero, non hanno reddito ma figli a carico. Insomma, sono persone legate all’assistenza a tutto tondo, ai servizi sociali, alle Asl. Il che pesa sul budget statale. Se invece dessero spazio ai centri e agli operatori, parte del lavoro potremmo accollarlo noi. Così anche le spese statali si ridurrebbero”.
Manca il riconoscimento. Invece, oltre ai quattrini, manca il riconoscimento. “Non riconoscono il lavoro degli operatori dei centri anti-violenza. Il governo tende a spostare i compiti dai nostri centri agli istituti di suore. Niente di male, ma qui noi lavoriamo per una causa. Almeno, chiude la Lanzoni, ci facciano sapere se hanno un piano per il futuro”.
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