I Democratici sono preoccupati del clima di antipolitica che monta nel paese. Non c’è parlamentare che non lo lasci intendere nei suoi discorsi e, inevitabilmente, la direzione che si è riunita ieri mattina ha cercato di trovare le contromisure, per evitare che si riproponga il temuto scenario del ’92.
Tra i più allarmati c’è proprio Pier Luigi Bersani, il cui obiettivo numero uno è «difendere la buona politica», non certo la casta, dal «fango» che la destra sta mettendo nel ventilatore «per mandare tutto allo sfascio». Il segretario del Pd ha dunque proposto, in una relazione che è stata approvata da una amplissima maggioranza, una linea chiara che, a partire dall’analisi della crisi in Italia e in Europa, pone come condizione fondamentale le dimissioni dell’attuale governo. «La strada maestra è il voto», per Bersani, che non si oppone comunque alla «formazione di un governo di breve transizione per fare la riforma della legge elettorale».
Il leader dem, e con lui tutto il partito, rivendica la scelta di aver permesso un’accelerazione sulla manovra economica, altrimenti «il lunedì nero lo avrebbero attribuito a noi», ma non cambia il proprio giudizio sul merito di un provvedimento «sbagliato e iniquo». E spiega: «Se toccherà a noi governare, garantiamo che i saldi resteranno invariati, ma correggeremo il senso della manovra». I punti su cui intervenire, per Bersani, sono il risparmio nella pubblica amministrazione, il fisco, le liberalizzazioni e la politica industriale.
Il Pd ne sta ragionando in tavoli tecnici istituiti insieme a Idv e Sel. È soprattutto sui costi della politica, però, che Bersani chiede un’accelerazione, «perché effettivamente il problema esiste», ma «non accettiamo che si spari nel mucchio». Il rischio è che si ripresentino «altre derive come quelle che abbiamo già conosciuto», con l’avvento del berlusconismo dopo Tangentopoli.
I dem hanno già presentato il proprio decalogo (dalla riduzione del numero dei parlamentari e delle loro retribuzioni all’accorpamento delle province e dei comuni più piccoli, solo per citare alcune delle proposte), integrato ieri in direzione da un ordine del giorno avanzato dall’area Marino e approvato all’unanimità, nel quale si prevede di adattare il modello italiano a quello in vigore nel parlamento europeo, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei servizi (affidata agli uffici istituzionali, con relativa sottrazione ai deputati del rimborso destinato agli assistenti) e la connessione tra l’entità della diaria e le presenze del parlamentare in commissione, oltre che in aula.
Una serie di proposte che «si può trasformare in fatti concreti entro luglio», fa notare Enrico Letta che su questo lancia la sfida al governo, visto che invece il “pacchetto” presentato qualche giorno fa dal ministro Calderoli «non si può realizzare immediatamente» e per questo, secondo il vicesegretario dem, «non è la risposta giusta».
Dopo la riunione della direzione, Bersani si è fermato a parlare per qualche minuto nel cortile di Montecitorio con Pier Ferdinando Casini, accompagnato dagli sherpa Migliavacca e Ventura (per i centristi assisteva Bosi). Più tardi, è stato anche ricevuto al Quirinale dal capo dello stato. Bocche cucite sul contenuto della conversazione, ma il segretario del Pd aveva già ribadito pubblicamente la «sensibilità » del suo partito di fronte ai problemi del paese. Ma ha anche aggiunto che il principale di questi è proprio la resistenza a oltranza del governo Berlusconi. «Noi siamo in parlamento ogni giorno con proposte nuove – ha spiegato Bersani – e siamo pronti a discuterle lì. Ma pensiamo anche che questa situazione politica non consente al paese di fare passi avanti».
da Europa Quotidiano 20.08.11
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“La proposta del Pd in aula già a settembre”, di Rudy Francesco Calvo
«Non possiamo continuare a tirare la palla in avanti. Se abbiamo una proposta, dobbiamo fare di tutto perché venga discussa in aula, a costo di occupare il parlamento. Poi sarà la maggioranza ad assumersi la responsabilità di dirci di no».
La direzione di ieri ha visto l’offensiva di quella parte del Pd che, più o meno direttamente, sostiene il referendum per il ripristino del Mattarellum: veltroniani, ma anche Castagnetti, Parisi, Bindi e i parlamentari a loro vicini. «Esponenti del Pci», li ha definiti ieri con un lapsus il segretario.
Un’offensiva che, alla fine, ha visto anche alcuni di loro votare contro (Parisi, Santagata e Zampa) o astenersi (quattro, tutti veltroniani) sull’ordine del giorno specifico sulla legge elettorale, mentre la relazione di Bersani ha contato nove astensioni (anch’esse di area prodiana e veltroniana) su 175 votanti.
«Forse potevamo anche votare a favore, come ha fatto lo stesso Veltroni – ammette un deputato di MoDem – ma i toni di Bersani nella replica hanno provocato in alcuni di noi una reazione d’istinto».
Un lungo lavoro di mediazione, condotto da Castagnetti e da Violante, ha comunque portato alla fine a un risultato che soddisfa la stragrande maggioranza dei dem. Bersani ha accolto la richiesta di un sostegno più deciso alla proposta Violante- Bressa, che sarà definita nei dettagli entro questo mese (già ieri sera i direttivi dei gruppi hanno avviato l’esame) per poi essere presentata nei due rami del parlamento. E il Pd chiederà che venga calendarizzata al senato già entro il mese di settembre, inserendola nella quota di proposte di legge che spetta di diritto all’opposizione.
Proprio i dettagli, se così si possono definire, tornano però in discussione. «Abbiamo chiesto alla direzione che si votasse nell’ordine del giorno solo la parte riguardante i principi – spiega Giorgio Tonini – e che venisse stralciata quella più analitica».
Quest’ultima, infatti, è stata allegata semplicemente come traccia di lavoro per i gruppi parlamentari. «È un’indicazione chiara, che comunque va seguita», dicono al Nazareno. «Ma non può essere vincolante», replicano dal MoDem. Dalla minoranza, ma anche tra gli altri “mattarelliani”, insistono infatti affinché la proposta dem abbia un carattere più chiaramente maggioritario.
Per Bersani è già così, visto che il 60 per cento dei deputati verrebbe eletto in collegi uninominali a doppio turno e il 40 per cento con sistema proporzionale (compreso il diritto di tribuna per le forze più piccole che non superano il quorum, al momento fissato al 4 per cento).
Ma per molti questo non basta: anche Piero Fassino ha messo in guardia dal rischio di una frammentazione del sistema politico. Sul tavolo rimangono le pistole puntate dei referendum, nonostante per Bersani essi non siano «coerenti con le proposte del Pd». «Siamo pronti a ritirarci se anche Passigli lo fa», ripetono i mattarelliani, già soddisfatti per il fatto che tra i dem il ritorno del proporzionale conta sempre meno sostenitori. Alle feste democratiche, comunque, non si raccoglieranno le firme per i quesiti, bensì per il testo Violante-Bressa, che sarà presentato simbolicamente anche come proposta di legge popolare.
da Europa Quotidiano 20.07.11