Domani pomeriggio la camera dei deputati deciderà a voto segreto se accogliere la proposta della giunta per le autorizzazioni di aderire alla richiesta del gip di Napoli di autorizzare la custodia cautelare dell’onorevole Alfonso Papa.
Sul caso specifico non desidero soffermarmi perché me lo impone il mio ruolo di presidente di garanzia della giunta stessa. Vorrei proporre invece alcune considerazioni di carattere più generale sul significato e le conseguenze politiche di questo voto, dopo aver precisato, e chi mi conosce lo può confermare, che personalmente non mi riconosco nella categoria dei cosiddetti giustizialisti.
Penso infatti che privare un cittadino della libertà, sia pure temporaneamente, sia sempre una decisione difficile, a prescindere dalle motivazioni e dalla loro solidità.
Ho parlato di cittadino e non di parlamentare perché il discorso dovrebbe essere lo stesso. Per un parlamentare vi sono in più delle ragioni specifiche che riguardano l’esigenza di non mutilare l’assemblea di cui è membro se non in casi oggettivamente gravi ed eccezionali, principio presente in tutte le costituzioni che prevedono non a caso specifiche procedure autorizzatorie.
Vi è infatti il dovere di preservare il potere legislativo da ogni rischio di aggressione o anche solo di ingiustificata invasione da parte di altri poteri. Tutto ciò non può mai essere dimenticato anche se l’opinione pubblica è raramente disposta a considerarne la rilevanza. Lo ricordo anche perché dopo questo vi saranno altri casi, uno è già stato assegnato all’esame della giunta, in cui il dilemma si ripresenterà. Nessuno è ovviamente autorizzato a pensare, come pure da qualche parte si insinua, che oggi siamo di fronte a un “disegno” politico della magistratura.
Può ben essere che quando il potere politico si indebolisce o perde credibilità e autorevolezza altri poteri si sentano legittimati a occupare spazi che non gli appartengono.
Ma, quando fosse anche così, e io non ritengo che questa sia la situazione di oggi, il dovere della politica non è quello di allestire difese e attivare conflitti immotivati, ma semmai quello di interrogarsi sulle ragioni della propria debolezza. Per questo ritengo che regola irrinunciabile per il parlamento, nelle richieste autorizzatorie proposte dalla magistratura, sia quella di attenersi sempre all’esame rigoroso delle ragioni giuridiche con animo libero da pregiudizi e tentazioni ritorsive. Solo così potrà dare conto delle proprie decisioni non solo alla magistratura ma a tutta l’opinione pubblica.
So bene di toccare un tasto delicato perché tra i parlamentari l’idea di tenere conto dei sentimenti del paese non ha gran mercato: “dobbiamo resistere, altrimenti ci fanno fuori tutti”, “vogliono ricreare il clima dell’inizio anni novanta, ma noi non cadremo nella trappola e non faremo come la Dc, il Psi e gli altri che allora si arresero”, sono valutazioni che in queste ore capita di ascoltare camminando soprattutto nella parte destra del transatlantico di Montecitorio.
Credo anch’io che ci possiamo trovare in un clima paragonabile a quegli anni, addirittura aggravato dalla condizione sociale di crisi e dalla vera e propria ostilità che sta strutturandosi verso il ceto politico. Voler resistere per non soccombere si può fare se vi sono serie ragioni di merito, ragioni spiegabili e percebili, altrimenti può trasformarsi nell’accelerazione di una sconfitta ancora più clamorosa di quanto si immagini.
L’uso “tombale” dell’articolo 68 della Costituzione, come strumento per negare sempre e comunque ogni richiesta autorizzatoria della magistratura, anche quelle più motivate dall’evidenza e ben più lievi della custodia cautelare, ha infatti oggettivamente offerto l’idea di una arroganza e una pretesa di impunità e, dunque, di privilegio.
Oggi il parlamento si troverebbe in altra condizione se si fosse comportato con maggiore ragionevolezza e senso di giustizia in tanti casi di richiesta di sindacabilità dei propri membri. L’opinione pubblica infatti questa chiusura non l’accetta più, soprattutto di fronte a talune manifestazioni di degrado etico nei comportamenti della classe dirigente che tendono ad affermarsi, per la loro estensione, come nuovo costume.
È giunto il momento di guardare in faccia alla realtà, per quanto sgradevole possa apparirci. Le polemiche sulla cosiddetta casta politica nascono, infatti, in primo luogo dalla perdita di credibilità e autorevolezza sicchè, delle indennità e dei vitalizi, della cooptazione che la legge determina in luogo della elezione, e delle prerogative che si trasformano per i parlamentari in privilegi di fronte alla giustizia, ormai la gente fa un sol fascio. Non è giusto, ma non è del tutto colpa sua.
È prevalentemente colpa di chi si ostina a non vedere e non capire che senza un ritrovato senso di responsabilità e della misura non se ne esce. E, allora, anche nelle richieste di autorizzazione agli arresti o anche solo all’uso delle intercettazioni o a qualche altra sindacabilità di cui il parlamento sarà investito nelle prossime settimane, non si potrà prescindere dal quadro di crescente insopportazione da parte dell’opinione pubblica di ciò che, a torto o a ragione, viene percepita come un’ingiustizia.
La politica non può mai decontestualizzarsi dalla realtà, pena il rischio di trovarsi delegittimata. Ci sono momenti in cui anche i singoli possono con un loro gesto individuale concorrere a salvare l’istituzione.
Anche se può essere o apparire soggettivamente ingiusto, quel gesto individuale può assumere un valore più generale oltrechè rappresentare l’occasione per una personale riabilitazione. Lontano dall’apparire un atto di debolezza o di ammissione di colpevolezza, le dimissioni di chi si trova coinvolto in tali situazioni possono essere lo strumento per smascherare supposte forzature da parte di altri poteri, in ogni caso per offrire all’istituzione cui si appartiene un riverbero del proprio senso di responsabilità e della propria affermazione di dignità.
E peraltro, oltre il confine di scelte che possono essere solo personali, deve esservi la consapevolezza dell’intero parlamento che la scelta di ogni suo membro ha in sé un valore individuale e collettivo. Ha cioè quel valore politico ineludibile di cui ognuno porta quota di responsabilità.
La miopia politica, la sottovalutazione del valore etico e politico delle proprie personali scelte, l’assecondamento di imposizioni esterne da qualunque parte provengano, il disinteresse verso l’opinione di chi sta fuori del “palazzo” ed osserva e giudica, tutto ciò può portare ad esiti non facilmente rimediabili come la storia anche recente ci ha insegnato.
da Europa Quotidiano 19.07.11