In un’atmosfera di sostanziale indifferenza di tutti (vertice aziendale, giornalisti, forze politiche, sindacati) si sta consumando la fine del principale “genere” che giustifica più di altri l’esistenza di un servizio pubblico radiotelevisivo: l’informazione, cioè il diritto-dovere di raccontare i fatti, realizzare inchieste e esprimere opinioni.
L’ostinazione messa in campo per negare a Milena Gabanelli quella tutela legale che le era stata sempre riconosciuta, come doveroso ombrello protettivo deciso dall’editore per garantire la messa in onda del suo più importante programma d’inchiesta, sta producendo un clamoroso autogol: privare della difesa nel caso di citazioni penali e civili tutti i giornalisti della Rai.
Questa nuova “policy aziendale”, come qualcuno l’ha definita, sarebbe obbligatoria e vincolante perché la Rai è sì una società per azioni ma, in quanto società di proprietà pubblica, deve essere assimilata alle pubbliche amministrazioni.
E per esse vige il divieto assoluto di assumere la difesa dei propri dipendenti, che devono anticipare le spese legali salvo chiederne il rimborso in caso di proscioglimento o di assoluzione con sentenza passata in giudicato. Ora io non credo che la Cassazione, quando nel 2009 a sezioni riunite decretò che la Rai deve essere considerata un «organismo pubblico», voleva “uccidere” la più grande azienda editoriale del paese imponendole vincoli sull’esercizio dell’informazione che tutte le altre aziende non hanno.
E per non essere frainteso chiarisco subito che non sto sostenendo il diritto del giornalista a dire cose non vere o ad avere libertà di diffamare altre persone. Chi ha sbagliato per negligenza, malafede o dolo è, infatti, giusto che paghi di persona. Dico soltanto che se la Rai (sino a ieri) e gli editori privati (ancora oggi) hanno deciso di tutelare anche processualmente i propri giornalisti la ragione è soprattutto quella di garantire un’informazione libera: hanno considerato in sostanza il problema come un normale rischio di impresa visto che il reato di diffamazione, direbbero i giuristi, è “ontologicamente” legato all’esercizio della professione giornalistica.
La nuova e restrittiva interpretazione avrà come conseguenza, infatti, non solo la rinuncia ad un programma d’inchiesta che, per la serietà e bravura della sua autrice-conduttrice, si è guadagnato sul campo il favore dei telespettatori ma anche un atteggiamento di estrema prudenza sino all’autocensura di tutti i giornalisti Rai con il rischio di trasformare i telegiornali in bollettini ufficiali.
Dal ’98 al 2001 sono stato prima direttore della Testata giornalistica regionale e poi del Tg3 unificato. Credo di aver collezionato in quegli anni una trentina di querele. Sono stato sempre prosciolto insieme con gli autori delle notizie o dei servizi “incriminati”. Se la Rai non si fosse assunta le nostre difese i nostri stipendi sarebbero a mala pena serviti per pagare gli onorari degli avvocati. Qualcuno può pensare che oggi, in un paese peraltro dove una citazione in giudizio non si nega a nessuno, vista la difficoltà di vedere riconosciuta la lite temeraria se assolti, il giornalista Rai sia disponibile ad assumersi da solo i rischi della sua attività professionale?
Non credo proprio e sono convinto che d’ora in poi anche i redattori del desk si rifiuteranno di dare le notizie di agenzia se non sarà possibile verificarle direttamente alla fonte. Ma, intanto, con una leggerezza che sfiora l’irresponsabilità, si uccide una delle trasmissioni identificative del servizio pubblico.
Da alcuni anni la Rai in attuazione di una prescrizione del Contratto di servizio realizza il monitoraggio della qualità dei propri programmi.
L’ultimo rapporto, realizzato dalla società Dinamiche, relativo alla stagione primaverile 2011 ha evidenziato che «l’esigenza di informazione è uno dei principali motivi per cui si guarda la televisione» e che «l’approfondimento informativo cresce di ben quattro punti» nel gradimento dei telespettatori. Nella classifica di questi programmi Report è saldamente in testa con un indice 75 per la qualità percepita (Iqp) e un indice 74 per il “valore pubblico” (Ivp). Per capire quanto sia positivo questo risultato basti pensare che gli indicatori Iqp e Ivp sono stati per Annozero 60 e 58, per Porta a porta 61 e 60, per Ballarò 64 e 64, per Qui radio Londra 43 e 42.
A questo punto nessuno si scandalizzi se può sorgere il sospetto che le pressioni per non riproporre Report nella prossima stagione siano talmente “autorevoli” da decidere di sacrificare non solo Milena Gabanelli ma tutti i giornalisti che lavorano per la Rai, sia esterni che interni. Una sorta di “muoia Sansone con tutti i filistei”.
Spero che non sia così, ma purtroppo la frittata mi sembra già fatta. Eppure non mi rassegno perché sono fermamente convinto che una soluzione ragionevole può, anzi deve essere trovata al più presto per garantire la regolare messa in onda di un programma approvato dal cda e già presentato agli investitori pubblicitari. Per questo rivolgo un appello al presidente, al direttore generale e al consiglio di amministrazione: chi potrebbe mai credere che una trasmissione di successo venga cancellata dopo 14 anni per ragioni tecnico-giuridiche? Nessuno.
19.07.11