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"Prepararsi alla campagna d'autunno", di Walter Tocci

Note sui problemi di attuazione della legge Gelmini. In Parlamento si torna a discutere della legge Gelmini. Giovedi scorso la Commissione Cultura ha esaminato il primo dei numerosi decreti attuativi, quello relativo alle procedure di abilitazione dei professori universitari. Un decreto chiama l’altro, ma i concorsi restano bloccati. Arriva già con grande ritardo, più del doppio del tempo previsto. Ma non fatevi illusioni che si possano sbloccare i concorsi; il decreto definisce solo alcuni aspetti propedeutici e formali della procedura, e non sarà in grado, per molto tempo ancora, di risultare immediatamente attuativo. Ci sarà bisogno di altri decreti che definiscano la sostanza del processo, in particolare gli aspetti più complessi e delicati: i criteri di valutazione e i settori concorsuali. Tali procedure andrebbero attivate entro 90 giorni, secondo quando è scritto solennemente nel testo; ma è poco credibile in quanro anch’esso è arrivato in Parlamento avendo già superato di gran lunga la medesima scadenza. Un decreto chiama l’altro, ma non sono ciliegie. E’ una sequela di atti burocratici con l’unico scopo di fare melina e tenere bloccati più a lungo possibile i concorsi – sono passati ormai tre anni e il blocco potrebbe durare per l’intero mandato del ministro – per consentire al sistema di assorbire i tagli di Tremonti. A conferma c’è la vicenda dei concorsi a professore associato, presentata dalla propaganda governativa come generosa concessione ai ricercatori. Sono passati sette mesi e il ministero non è stato ancora in grado di assegnare i fondi agli atenei. Tutto è fermo nei cassetti ministeriali.
Mentre si scrivono nuovi decreti rimangono inattuati quelli già approvati! Ad esempio, nel 2008 è stata istituita l’Anagrafe dei professori e dei ricercatori e già da tempo sono state messe a punto le relative procedure informatiche. Al ministero non sono bastati tre anni di tempo per autorizzarne l’attivazione. Viene il sospetto che la ministra ci abbia ripensato o forse non si sia resa conto della portata quando fu istituita con un emendamento Senato. Oggi renderebbe visibile la quota del 10-20% di professori inattivi scientificamente, che spesso sono anche quelli più direttamente impegnati nella erogazione dei finanziamenti e nella frequentazione dei corridoi ministeriali.
Non solo, l’Anagrafe andrebbe attivata e, a mio avviso, anche potenziata con una prima griglia di valutazione che almeno classifichi i prodotti scientifici per grandi categorie di qualità, dall’articolo di grande impatto internazionale alla semplice dispensa. A partire da questa base elementare le commissioni esaminatrici potrebbero svolgere poi un’analisi qualitativa più mirata. Si avrebbe il vantaggio di utilizzare questi dati per tutte le altre attività di valutazione, dagli scatti di anzianità, alle chiamate di ateneo, alla ripartizione dei fondi, ecc. Non sarebbe necessario ogni volta riprodurre tutte le copie cartacee e si semplificherebbero i problemi di privacy e di diritto d’autore.
Nella Commissione Cultura della Camera il Pd ha votato contro la proposta di decreto perché si tratta di un prodotto burocratico che rinvia le decisioni veramente importanti e necessarie per l’attivazione delle abilitazioni. E il rinvio dei criteri di valutazione e dei settori dipende solo da un trucco del governo che vuole inserire questi argomenti in successivi provvedimenti esclusi dall’obbligo del parere parlamentare.
Abbiamo presentato un parere alternativo (a prima firma Ghizzoni, in allegato) per impegnare il governo a predisporre un nuovo testo contenente tutti gli elementi necessari per un’immediata attuazione delle procedure di valutazione. Con l’occasione abbiamo chiesto l’immediata attuazione dell’Anagrafe e del riparto dei fondi per i concorsi ad associato e almeno questi impegni sono stati recepiti nel parere di maggioranza. Abbiamo anche proposto di semplificare molte procedure. Ad esempio, non ha alcun senso imporre un bando per l’abilitazione, la quale – vale la pena ripeterlo – non è un concorso e quindi non comporta la comparazione tra candidati, i quali, perciò potrebbero essere autorizzati a presentare domanda in qualsiasi momento, quando ritengano di aver accumulato i titoli sufficienti.
Con le nostre proposte si sarebbero accorciati i tempi e avremmo ottenuto una discussione trasparente sui contenuti. È passato il testo della maggioranza, ma come opposizione contineremo a vigilare sulle tappe successive.
La paralisi degli accessi pesa soprattutto sui giovani ricercatori sia di ruolo sia precari, ma blocca pure le legittime aspettative di carriera dei professori associati più bravi.
E’ ferma al palo anche la famosa tenure track che secondo la retorica ministeriale avrebbe offerto un futuro radioso ai giovani. Come segnalammo durante la discussione parlamentare non si tratta di una vera tenure perché alla fine non ci sono le garanzie finanziarie che possano assicurare l’accesso in ruolo del candidato nel caso di raggiungimento degli obiettivi scientifici. I fatti purtroppo ci stanno dando ragione e nessun ateneo finora si è azzardato a utilizzare questo miracoloso strumento, proprio perché non vi sono certezze di finanziamento neppure per l’anno in corso e non sono stati definiti i criteri di accesso al livello del professore associato, a causa del rinvio di cui si è detto sopra.
In diversi atenei si fa credere che si possano utilizzare i vecchi contratti a tempo determinato, ma è una strada pericolosa che potrà portare brutte sorprese in seguito, perché i pur labili benefici della tenure sono garantiti solo con le procedure attuative della legge 240. Rimane poi come un macigno la norma generale (art. 9 della legge 122-2010) imposta da Brunetta a tutta la pubblica amministrazione che limita il numero dei contratti a tempo determinato al 50% dell’anno precedente. Non è scritto da nessuna parte che l’università sia esclusa da questo vincolo e se non si chiarisce l’equivoco potremmo avere un nuovo blocco, poiché attualmente i contratti a tempo determinato sono pochissimi. La bulimia normativa del governo produce un intrico di norme irrazionali, ma con un esito certo di blocco del reclutamento che rende impossibile la sostituzione dei professori in pensione.
Il Pd ha presentato un disegno di legge per rimuovere gran parte di questi ostacoli burocratici e si batterà con tutte le sue forze in Parlamento per sbloccare gli accessi dei giovani ricercatori all’università. Questa è l’emergenza principale, aumenta fino a diventare valanga l’esodo dei ricercatori italiani nei laboratori e nelle università europee. La nostra iniziativa parlamentare sarà volta a conquistare risultati concreti su questo punto per ridare speranza a tanti giovani di valore, prima che si convincano ad abbandonare la ricerca o il nostro paese. Quei ricercatori precari non sono solo una promessa per il futuro, ma hanno già firmato circa la metà dei prodotti di più alta qualità scientifica secondo la rilevazione del Civr.

Ai figli di papà i sussidi statali

Ben altro impegno e qualche spreco finanziario ha mostrato la ministra sul Fondo per il merito, imponendo nel decreto Tremonti una repentina modifica dopo solo tre mesi della legge 240 per creare un altro carrozzone pubblico, una Fondazione con relativi presidente e consiglio di amministrazione incaricata della gestione. Per adesso siamo ancora alla fuffa di dichiarazioni di principio, ma già si intravede dove vogliono andare a parare. I soldi sono pochi per il diritto allo studio, circa 100 milioni, cioè quasi la metà di quanto versano gli stessi studenti con la tassa regionale e pari al 5-6% del finanziamento pubblico stanziato in Francia e Germania, rispettivamente 1,6-1,9 miliardi di euro). Eppure, è forte il sospetto che la ministra intenda stornare una quota di questi finanziamenti verso la Fondazione per il merito – che opera a prescindere dal reddito – per estendere i sussidi anche ai figli di papà. Se il figlio di una famiglia ricca va bene negli studi non ha certo bisogno di essere aiutato con qualche centinaia di euro dallo Stato, ma semmai a lui e a tutti i meritevoli, a prescindere dal reddito, andrebbero offerte opportunità di alta formazione, ad esempio serie scuole di specializzazione, e quando vi sono le motivazioni anche attività di ricerca. Il sussidio pubblico, soprattutto se le risorse sono scarse, andrebbe invece concentrato solo sui meritevoli che non ce la fanno a sostenere i costi degli studi. Almeno così dice la nostra Costituzione. Ma gli ideologi del ministro sostengono il contrario. Roger Abravanel così ha presentato il Fondo per il merito: “Si premiano i migliori indipendentemente dal reddito.. Figlio di un petroliere o di un operaio, fa lo stesso”.
Non stupisce affatto che la becera destra italiana pensi questo. È molto preoccupante invece, che l’argomento abbia trovato largo consenso nel dibattito pubblico. E ciò è ancora più grave se consideriamo che l’Italia è il paese europeo in cui pesano di più le differenze sociali nella formazione dei giovani, i quali si trovano esposti ad almeno tre trappole che impediscono il pieno sviluppo delle capacità.
C’è innanzitutto una trappola cognitiva poiché la quota di laureati figli di non diplomati è al di sotto degli standard europei. Si rischia di tornare indietro rispetto a un processo di emancipazione sociale che pure c’è stato nei decenni passati. Ormai solo ai figli di avvocati, di imprenditori ecc. sono assicurate le stesse opportunità dei genitori.
C’è una trappola territoriale dovuta alla storica condizione di debolezza del Mezzogiorno come non succede ormai in nessun’altra regione europea. E di questo ci sono molte evidenze, ad esempio il fenomeno degli studenti idonei che non ottengono la borsa di studio, cioè una chiara inadempienza dell’articolo 34 della Costituzione, si verifica quasi esclusivamente nelle regioni del Sud.
Infine, c’è una trappola sociale che spesso comprende le altre e va crescendo sotto i morsi della crisi. Sono i figli delle famiglie più povere e del ceto medio impoverito a rinunciare agli studi universitari perché non ce la fanno a sostenere i costi o perché si vanno convincendo che la laurea non garantisce più un’occupazione adeguata, anche in seguito alla campagna denigratoria contro l’università condotta dalla classe dirigente. C’è da dire poi che il fenomeno può essere stato aiutato anche da un silenzioso e in gran parte illegale aumento della tasse universitarie del 30% negli ultimi tre anni, praticato dagli atenei senza rispettare l’attuale limite di legge. La diminuzione delle immatricolazioni dopo un decennio di crescita è il segno di una pericolosa inversione di tendenza. Soprattutto in un paese che presenta una quota di laureati dimezzata rispetto alla media europea.
Questo fenomeno è un gravissimo campanello d’allarme per il patrimonio cognitivo del paese. Esso dovrebbe essere al centro del dibattito e delle decisioni della politica universitaria e invece viene rimosso per occuparsi di cose inutili. L’errore principale, prima dei singoli provvedimenti, è già nell’agenda imposta dal governo. Che in un paese a forti ingiustizie sociali come il nostro si propongano i sussidi ai figli di papà e ciò sia ritenuto normale da molti commentatori è il segno di un disorientamento pericoloso del dibattito pubblico. Quando ci saremo liberati di Berlusconi si dovrà lavorare parecchio per diradare le nebbie della falsa coscienza che il paese ha maturato circa i suoi problemi in questi anni.

.. e i figli degli operai ai mercati generali

La coppia Brunetta-Sacconi, però, ha già trovato la soluzione proponendo ai giovani di andare a spostare le cassette ai mercati generali. Come se questa nobile attività potesse bastare non dico ai nostri giovani, ma alla crescita del paese nella competizione internazionale. Le ciance ministeriali vogliono convincerci, a dispetto di tutte le statistiche europee, che ci sono troppi laureati in Italia, con l’unico scopo di legittimare i tagli ai finanziamenti. Certo, i laureati sono di più di quanti ne assorba il sistema produttivo, ma l’anomalia è collocata nella bassa offerta di lavoro qualificato non nella domanda. E’ proprio nella scarsa utilizzazione dei risultati della conoscenza da parte del sistema economico la causa principale del crollo di produttività, della scarsa crescita e dell’impoverimento dei redditi che ha segnato l’ultimo decennio. Qui si distingue la sinistra dalla destra. Per noi bisogna innalzare la qualità del lavoro e per questo serve un sistema di formazione più forte. Per loro invece si tratta di ridurre l’offerta formativa al rango dell’attuale sistema produttivo, non curandosi che proprio questa è la strada verso il declino del paese. Non si mangia con la cultura è il manifesto di un autolesionismo nazionale da evitare.
Anche qualche spensierato commentatore di sinistra propone di attribuire agli studenti i costi della formazione universitaria tramite i prestiti da restituire quando avranno trovato un lavoro. Ma l’equazione più tasse universitarie-maggiori entrate per gli atenei, uguale maggiore eccellenza universitaria, non è dimostrata da nessuna parte. Basti prendere ad esempio i sistemi d’oltralpe dove l’accesso all’istruzione universitaria è gratuito (Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca) o si applicano tasse universitarie decisamente basse (Francia e Germania), e che non per questo sono meno prestigiosi di altri atenei.
Inoltre, il sistema dei prestiti mal si coniuga con il concetto di pari opportunità nel raggiungimento dei più alti gradi di istruzione. Alcuni studi condotti nel Regno Unito hanno dimostrato che:
 l’avversione al rischio è maggiormente radicata tra le fasce meno abbienti della popolazione per cui il sistema dei prestiti ne scoraggia l’iscrizione all’università;
 gli studenti, per non indebitarsi eccessivamente, dedicano parte del loro tempo ad attività di lavoro part-time (a discapito dei risultati formativi);
 gli studenti in condizioni economicamente svantaggiate tendono ad optare per corsi più brevi in atenei meno prestigiosi, al fine di ridurre il più possibile i costi d’istruzione e il conseguente indebitamento.
A ciò si deve aggiungere la situazione del mercato del lavoro in Italia. Nonostante la bassa offerta di laureati, quelli che trovano un lavoro sono una quota tra le più basse in Europa, ed è diminuita nel corso del decennio passato. Non solo, i giovani laureati sono pagati sempre meno e con contratti quanto mai aleatori. Si propone di restituire il prestito con il 20% dello stipendio, ma come si fa a chiedere questo a un giovane che spesso non arriva ai 1000 euro al mese e già non riesce a pagarsi l’affitto e mantenersi da vivere?
L’errore di fondo di tali proposte, al di là dei tecnicismi, consiste nel poggiare lo sviluppo dell’università sulla gamba più debole del paese che è proprio il basso rango tecnologico dell’attuale sistema produttivo. Si dovrà fare, invece, il contrario con un forte programma di crescita della conoscenza, della ricerca e dell’università che sappia trascinare in alto anche la domanda di qualità del lavoro. Occorrono misure per creare occupazione qualificata e per stimolare la crescita di attività economiche basate su ricerca e saperi. Cosa certo non facile ma che dovrebbe essere al centro della politica nazionale.
Comunque, possono servire anche i prestiti facoltativi con garanzia dello Stato, purché non sottraggano risorse alle borse di studio, come invece è avvenuto finora. Il ministro ne parla come una novità assoluta, ma i prestiti esistono da venti anni e sono stati finanziati da diverse leggi per una somma di circa 50 milioni di euro. In un paese normale si farebbe un bilancio di questa esperienza prima di legiferare di nuovo sull’argomento. Servirebbe un’indagine conoscitiva per sapere quali risultati sono stati raggiunti e per valutare se quei soldi non sarebbero stati spesi meglio per dare la borsa agli aventi diritto.

La priorità degli studenti

La decisione più importante che si dovrà prendere sul diritto allo studio nell’attuazione della legge 240 e della legge sul federalismo riguarda la definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) e i livelli essenziali di accesso (LEA), per i quali è previsto un apposito decreto legislativo. Nelle riunioni preparatorie al ministero si profila un approccio riduttivo e conservativo. Si dovrà prima di tutto risolvere il problema dei circa trenta mila giovani che pur avendo diritto per livelli di reddito e di merito non ottengono la borsa. Ciò richiede un aumento del fondo nazionale, oggi molto basso, come si è detto sopra. Abbiamo però il sospetto che invece di aumentare i fondi si troverà il modo di ridurre gli idonei, alzando l’asticella per definirli tali.
Soprattutto è preoccupante l’indirizzo che sembra affermarsi di ridurre i LEP a una mera quantificazione economica delle borse di studio. Sarebbe una montagna che partorisce un topolino. Non si può accettare, anzi, bisogna cogliere questa occasione per mettere in agenda il miglioramento delle condizioni di studio e di vita degli studenti. I LEP devono definire le dotazioni di trasporto, di residenze, di servizi sanitari, culturali e sportivi che le diverse città sono tenute a offrire agli studenti. È l’occasione per porre il tema del welfare studentesco come priorità nazionale. E non solo, la stessa nozione di diritto allo studio va estesa all’intero arco della vita, garantendo la possibilità di studiare anche ai lavoratori e agli adulti.
Allo stesso tempo si dovranno definire i LEP in termini di strumenti per la didattica, luoghi di studio, biblioteche, viaggi all’estero. Bisogna riequilibrare le distanze oggi molto ampie tra situazioni positive in linea con standard europei e altre, invece, ai limiti della dignità di un luogo di alta formazione.
Infine, anche l’offerta didattica è un argomento che ha bisogno di un rischiaramento per eliminare gli equivoci e i fraintendimenti prodotti da una sciagurata campagna denigratoria. La verità è molto diversa da come viene raccontata dalla propaganda di destra. La proliferazione dei corsi c’è stata effettivamente nel periodo di Letizia Moratti – allora osannata come ottimo ministro dagli editorialisti alla moda. Successivamente, per merito del governo Prodi, c’è stata una frenata che ha riportato il numero dei corsi di studio nei limiti fisiologici. Infatti, nell’ultimo anno accademico i corsi di primo livello sono stati 2532, molto vicini al livello pre-riforma di 2444 e molto al di sotto del livello di 3103 raggiunto nei primi anni duemila.
La Gelmini ha oscurato questi dati per far credere che il taglio di corsi si debba ancora fare e a tal fine ha emanato il famigerato DM 17, un regolamento che oltre ad appesantire in modo demenziale la burocrazia universitaria impone per il prossimo anno la copertura del 70% dei corsi con docenti di ruolo. Sarebbe un ottimo criterio, ma nel contempo il blocco dei concorsi impedirà in molti casi di rispettarlo e quindi il risultato finale sarà un drastico taglio dei corsi, forse sotto la soglia degli anni novanta. Può darsi che in questa falcidia verranno eliminati corsi inutili, ma certamente anche esperienze formative di grande livello che appartengono a prestigiose tradizioni scientifiche nazionali o a riuscite innovazioni culturali. Si passa quindi da un eccesso all’altro, come accade spesso in Italia, prima espandendo l’offerta senza misura e poi tagliando con la stessa cecità, ma sempre senza ricorrere alla valutazione della qualità. Infatti, di tutto si è parlato in questi anni tranne dell’avvio di una seria valutazione nel merito i corsi senza ricorrere alla numerologia cabalistica del DM 17. La ministra aveva dichiarato il rinvio del decreto, dopo le proteste del mondo accademico, ma non ha mantenuto l’impegno e quindi il prossimo anno accademico inizierà nella totale incertezza normativa.
Non solo, altri problemi di organizzazione della didattica verranno dall’assurdo rifiuto a riconoscere ai ricercatori il pagamento dell’indennità di insegnamento, o a determinarla in misura umiliante, benché sia stata prevista dalla legge 240. Nell’università si è diffusa da tempo la consuetudine di non considerare obbligatoria la remunerazione delle persone che lavorano, ma è francamente una tendenza inaccettabile e certo i ricercatori non vanno lasciati soli in questa battaglia.
Tutti questi problemi e più in generale gli effetti dei tagli finanziari renderanno quindi molto difficile l’avvio dell’anno accademico. La condizione degli studenti tenderà a peggiorare per mancanza di borse di studio e di servizi, per la diminuzione e l’irrigidimento dell’offerta formativa, per l’introduzione discrezionale e ingiustificata di numeri chiusi nelle immatricolazioni. Nella mobilitazione di autunno bisognerà partire proprio dalla condizione degli studenti. Essi devono sentire la solidarietà del mondo accademico e dell’opposizione parlamentare.

Per non morire di scartoffie

Purtroppo, siamo stati facili profeti. L’effetto immediato della legge 240 consiste nella paralisi dell’università italiana. E non sarà un momento passeggero, ci vorranno forse anni per smaltire l’indigestione di norme prodotta dalla legge. Ogni attività è in attesa di qualche decreto, statuto o regolamento, dagli acquisti ai piani strategici.
La prima causa della paralisi è da ricercare proprio nel ministero che è diventato rapidamente il collo di bottiglia del sistema universitario. C’era da aspettarselo perché la Gelmini con la legge 240 ha centralizzato molte funzioni amministrative senza una conseguente riorganizzazione della macchina amministrativa. Anzi, la situazione è addirittura peggiorata, perché molti dirigenti sono fuggiti dalla confusione amministrativa lasciando vacanti diverse posizioni con difficili passaggi di consegne. Tutto ciò, insieme a indirizzi ministeriali confusi e spesso ai limiti dell’illegittimità, come conferma il parere del Consiglio di Stato, diffonde un’onda di inafficienza nell’intero sistema. Clamorosa, ad esempio, è stata la gestione FFO del 2010 che ha assegnato i finanziamenti agli atenei soltanto nel mese di gennaio di quest’anno, oppure i ritardi dei progetti di ricerca Prin fermi ai fondi del 2009, o ancora i circa 800 milioni di euro dei PON per la ricerca nel Sud non ancora spesi a causa di banali errori amministrativi.
Questa struttura, già in evidente affanno, dovrebbe ora gestire ben 47 decreti governativi previsti in attuazione della legge, dei quali solo 17 sono stati predisposti a quasi due terzi dell’anno (per i testi vedi sito del CRS http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?rubrique81).
Ciò nonostante la Gelmini continua a centralizzare altre funzioni, prescindendo dalla effettiva capacità di attuazione del ministero e con l’unico scopo di sottomettere gli atenei al controllo politico. Emblematica in tal senso è la proposta di decreto legislativo sulle norme di commissariamento. La certificazione della crisi dell’ateneo è effettuata dai revisori interamente di nomina ministeriale e su dati esclusivamente di bilancio che dipendono in gran parte dalle decisioni di finanziamento del governo. E’ esclusa qualsiasi valutazione sulla qualità della ricerca e della didattica. In queste condizioni un ministro che prendesse di mira un ateneo, per ragioni politiche o di altro tipo, avrebbe tutti gli strumenti per condurlo al commissariamento. E anche la figura del commissario è identificata solo col funzionario ministeriale, mentre proprio le gravi situazioni di crisi richiederebbero una competenza specifica per trovare vie d’uscita che oltre a curare il bilancio tengano conto del patrimonio essenziale di ricerca e di didattica.
Preoccupante è anche il decreto che introduce la contabilità economico-patrimoniale. Il ministero dell’Economia, in questo caso in versione statalista, ha imposto il mantenimento anche delle classiche procedure di competenza e di cassa. Ciò significa che l’ateneo dovrà gestire contemporaneamente tre tipi di contabilità, secondo regole sia pubblicistiche sia privatistiche, con evidenti complicazioni dell’attività gestionale, anche per la mancanza di esperienze di adeguate professionalità. Tra l’altro l’evidenza dei costi e dei ricavi delle singole strutture, tipica della contabilità aziendale, non può condurre a valutare solo la sacrosanta economicità della gestione. Un ateneo è davvero ben gestito se la sua efficienza interna è finalizzata a creare valore culturale, civile e anche economico per la società in cui opera.
Da valutare attentamente, inoltre, è la cancellazione dell’autonomia di bilancio dei dipartimenti a favore di un centralismo di ateneo isomorfo con quello del ministero. Certo, non sempre questa autonomia è stata utilizzata bene, ma proprio i dipartimenti sono le strutture più dinamiche del sistema universitario, non solo per la ricerca ma anche per la capacità di tenere relazioni con la società e con il tessuto produttivo. Alcuni studi hanno dimostrato che la varianza della qualità della ricerca è più ampia tra i dipartimenti che tra gli atenei, nei quali le differenze tendono a elidersi. In tale contesto, la cancellazione dell’autonomia finanziaria, se non gestita bene, potrebbe far perdere qualcosa alla vivacità delle strutture universitarie. D’altro canto, la perdita di autonomia di bilancio è in controtendenza rispetto alla centralità di funzioni e al potenziamento che la legge 240 ha voluto attribuire ai dipartimenti. Si tratta comunque di materia estremamente complessa e saranno perciò molto preziosi i contributi integrativi o correttivi che verrano a questo primo tentativo di lettura del testo governativo.

Chi difende il prestigio dell’università?

L’insieme di tali processi produce un sistema universitario più piccolo, più rigido e più sottomesso.
C’è una convergenza degli effetti burocratici e finanziari. Questi, in particolare, raggiungono oggi la massima intensità dopo un decennio comunque molto difficile. Quando si farà un bilancio veritiero si capirà che Tremonti ha provocato nel periodo un fortissimo aumento di spesa pubblica compensato in parte dal prelievo nel solo settore della scuola e università. La destra ha operato un poderoso spostamento di risorse nel bilancio dello Stato a discapito dell’educazione, come non era mai accaduto prima in Italia; il processo si è fermato solo nella breve stagione del governo Prodi, pur con tutti i suoi limiti.
Oggi l’effetto cumulativo di questa politica si scarica sugli atenei rendendone molto difficile la gestione. Le burocrazie accademiche hanno reagito al problema abbassando la testa, assecondando l’invadenza governativa e chiedendo nuove norme per gestire gli atenei. La morsa burocratica e finanziaria si è quindi realizzata con una sintonia oggettiva tra il governo e buona parte dei gruppi dirigenti accademici. Riemerge qui un penoso carattere nazionale visibile fin di tempi delle signorie rinascimentali, le quali non riuscendo a unificare il paese fecero ricorso agli eserciti stranieri pur di mantenere il potere.
A tale esito ha contribuito la crisi della leadership accademica, che è, a mio avviso, la ragione fondamentale della crisi dell’università italiana. Si sono infatti inariditi i processi di formazione della classe dirigente e non emergono più all’interno dell’accademia quelle personalità capaci di convincere la comunità scientifica senza ricorrere alle norme, ma in virtù della propria autorevolezza e del prestigio culturale o morale. La funzione dirigente, a causa dell’enorme burocratizzazione della vita universitaria, è impegnata ormai quasi a tempo pieno nell’attività amministrativa e di conseguenza perde il contatto con la produzione culturale. Non c’è consapevolezza dei guasti che questa deriva ha prodotto. La burocratizzazione dei dirigenti accademici va di pari passo con la perdita di autorevolezza. I primi ad esserne consapevoli sono proprio loro e per questo sentono il bisogno di un intervento esterno che ponga fine alle discussioni accademiche con il sigillo della legge. Ma questo ricorso al vincolo esterno produce un ulteriore indebolimento della funzione dirigente che ha sempre più bisogno di norme, in un circolo vizioso che distrugge qualsiasi capacità decisionale degli atenei. Si possono trovare conferme in alcune vicende travagliate nell’approvazione degli statuti. Quando un rettore viene messo in minoranza in un atto fondamentale, come è accaduto in grandi università, non si tratta solo di fatti tecnici, ma è il segno di una drammatica carenza di leadership.
Tutto ciò dovrebbe condurre a un ripensamento di uno stereotipo in voga nel dibattito da molto tempo. Ciò che manca all’università è proprio l’autoreferenzialità, almeno se intendiamo questa parola nel significato autentico di capacità della comunità scientifica di esprimere un’élite autorevole e in grado di assumersi la responsabilità dell’autogoverno. Da tale carenza discende una grave anomalia. Di solito sono le élites a curare il prestigio delle istituzioni che dirigono. Invece, nel caso dell’università sono spesso quelli che stanno in alto a indebolirne l’autonomia, a chiedere interventi esterni e a denigrarne l’immagine. Si possono fare tanti esempi: la continua richesta di nuove leggi, i giudizi spesso liquidatori espressi dai professori nei media, la difficoltà a gestire la reputazione scientifica isolando i fenomeni negativi.
Paradossalmente l’unico tentativo di restituire il prestigio e la credibilità all’università italiana è venuto dagli studenti, dai giovani ricercatori e in generale dai professori meno impegnati nelle burocrazie accademiche. Sono andati sui tetti, come a dire la volontà di riportare in alto il rango dell’istituzione universitaria.
E allora in autunno dovrà continuare a farsi sentire questa voce. Bisogna riprendere la mobilitazione per fermare i guasti prodotti dal governo e per cominciare a tracciare una via nuova di autentica riforma. E in questo impegno dovranno tornare a darsi la mano la mobilitazione negli atenei e l’opposizione nel Parlamento, come avvenne lo scorso dicembre. Bisogna prepararsi per tempo con l’analisi dei provvedimenti governativi e con l’elaborazione di proposte alternative.
In queste note ho provato a fare qualche esercizio in tal senso, senza presunzione di averli indovinati tutti, ma per sottoporli al giudizio critico e a contributi integrativi. Possiamo farlo con le mail, ma anche nella discussione collettiva. Per questo vi invito ad un incontro che si terrà al CRS (via Palermo 12, Roma), giovedi 21 luglio alle ore 16.30. Mi rendo conto della stagione calda, però se vi trovate nella capitale, se avete qualche ora disponibile, se siete comunque interessati mi farà molto piacere accogliervi nel nostro centro studi. Chi è impossibilitato a venire può comunque inviare contributi scritti. Più avanti ci saranno certamente altre occasioni.

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Schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento per il conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso al ruolo dei professori universitari. Atto n. 372

PROPOSTA DI PARERE ALTERNATIVO PRESENTATO DAI DEPUTATI GHIZZONI, NICOLAIS, MAZZARELLA, BACHELET, MELANDRI, COSCIA, DE BIASI, DE PASQUALE, DE TORRE, LEVI, LOLLI, PES, ROSSA, RUSSO, SIRAGUSA, GIULIETTI e ZAZZERA

La VII Commissione, esaminato l’atto del Governo n. 372,
premesso che:
è sempre più avvertita e pressante la necessità di avviare, con immediatezza, procedure per l’accesso ai diversi livelli della docenza universitaria al fine di assicurare funzionalità a strutture ormai depauperate dall’esodo per limiti di età di un elevato numero di professori;
questa circostanza comporta l’impossibilità di organizzare la didattica e la ricerca universitarie secondo una programmazione razionale, in coerenza con le esigenze degli studenti e la vocazione specifica degli atenei; tutto ciò, inoltre, costringe gli atenei a ridurre l’offerta formativa anche nei settori scientifici e disciplinari di rilievo per la maggior parte dei corsi di laurea;
i continui cambiamenti nella normativa dei concorsi hanno di fatto bloccato il processo di selezione e progressione nella carriera universitaria, ormai da oltre tre anni e senza che se ne veda una fine; ciò aggrava il sentimento di frustrazione che già pervade i giovani impegnati da tempo nell’accademia, rendendo sempre più aleatorie le loro opportunità di cimentarsi in una valutazione determinante, non solo per il loro futuro professionale, ma anche per la crescita del patrimonio scientifico e culturale del Paese;
la proposta di regolamento in esame giunge in ritardo all’esame delle Commissioni competenti e sarà emanato ben oltre la scadenza dei 90 giorni previsti dalla legge 240 a causa dei grossolani errori contenuti nel testo, approvato a gennaio dal Consiglio dei Ministri, che hanno suscitato molti rilievi da parte del Consiglio di Stato, costretto ad esercitare – in questo caso – un ruolo improprio di correttore di bozze per eliminare almeno le più evidenti illegittimità formali;
l’eventuale conseguimento dell’abilitazione costituisce soltanto un presupposto e di conseguenza sarà necessario ulteriore tempo per espletare procedure di valutazione a livello di ateneo prima di raggiungere l’accesso al ruolo di professore e la progressione di carriera;
lo schema di regolamento sottoposto a luglio all’esame della Commissione, lungi dal definire compiutamente la procedura prevista e consentire in tempi ragionevoli l’avvio delle sessioni di abilitazione, rinvia, in una sorta di gioco di scatole cinesi, ad altri atti ministeriali, su aspetti di estrema delicatezza giuridica, quali quelli relativi alle modalità di individuazione delle commissioni di valutazione,

alla delimitazione dei settori concorsuali e soprattutto ai criteri di selezione dei candidati, cioè alla sostanza del provvedimento;
si definisce in 90 giorni il termine per la conclusione delle suddette procedure, ma tale scadenza non può avere alcuna credibilità poiché viene fissata in un testo che già non ha rispettato il medesimo termine per l’emanazione; è altresì poco credibile la scadenza di 30 giorni, che probabilmente cadrebbe nel prossimo mese di agosto, per la definizione di argomenti complessi come i settori concorsuali e i criteri di valutazione;
le audizioni svolte dalla Commissione hanno posto in evidenza quanto questi argomenti siano determinanti per il futuro assetto delle nostre università e quanto possano incidere sull’evoluzione della produzione scientifica del Paese;
le decisioni su questi argomenti sono rinviate con l’unico scopo di sottrarle al controllo del Parlamento; si rinvia, infatti, a provvedimenti di ordinaria amministrazione che non hanno bisogno di pareri parlamentari a differenza del regolamento in esame;
si procura quindi un ulteriore ritardo nell’applicazione delle legge 240, non già per rendere più efficiente le procedure, ma anzi per renderle meno trasparenti e verificabili nelle sedi istituzionali, sottraendo al Parlamento il controllo sulla sostanza del provvedimento e allo stesso tempo costringendolo a discutere di un testo parziale e senza alcuna attuabilità amministrativa;
prima di avventurarsi nella emanazione di nuove norme sarebbe opportuno attuare quelle già approvate da molto tempo: a tale proposito, si ricorda che l’Anagrafe dei professori e dei ricercatori, istituita con il decreto legge 180 del 2008, non è ancora attivata. Non si comprende, peraltro, per quali motivi il ministero non ne abbia ancora autorizzato il valore amministrativo, pur essendo ormai risolti da tempo i problemi tecnologici e funzionali;
la piena funzionalità dell’Anagrafe semplificherebbe molti problemi segnalati dal Consiglio di Stato in riferimento alla disponibilità delle pubblicazioni – in particolare la privacy e i diritti di autore – e renderebbe non più necessarie molte procedure del presente schema di regolamento, estendendo i benefici a tutte le altre prove di valutazione che seguiranno e non solo in materia concorsuale;
la diffusione degli adempimenti burocratici è forse il problema più grave della vita universitaria e la logica della legge 240 del 2010 rischia addirittura di aggravarlo; almeno in sede attuativa, quindi, si dovrebbero studiare le soluzioni migliori per ridurre il peso delle procedure e comunque non aumentarle. A tale riguardo non si comprende la necessità di un bando annuale per le abilitazioni visto che esse non richiedono comparazioni tra candidati ma soltanto il riconoscimento di un livello determinato della produzione scientifica individuale; si sarebbero potute esperire altre modalità più flessibili, quali ad esempio la domanda per il riconoscimento dei titoli maturati che il candidato può inviare alla commissione in qualsiasi momento. Questa procedura semplificata potrebbe essere operativa a regime, quando cioè saranno stati superati i problemi di ingolfamento iniziale delle domande. Inoltre, merita sicuramente una semplificazione la normativa relativa alla nomina delle commissioni, poiché nella versione attuale dello schema di regolamento risulta allo stesso tempo eccessivamente burocratica e aleatoria negli esiti; infatti, il Consiglio di Stato ha bocciato la pretesa del ministro di valutare i titoli dei candidati commissari che avrebbe costituito una palese invasione politica nei confronti dell’autonomia universitaria. Poiché il ministro non ha risposto all’obiezione del Consiglio di Stato si deve ritenere illegittima su questo punto la formulazione dello schema di regolamento;
i fondi stanziati dalla legge n. 240 del 2010 (comma 9, articolo 29) per i concorsi di professore associato non sono stati ancora ripartiti ai diversi atenei,
poiché ad oggi non si è data attuazione alla disposizione della legge di stabilità 2011, la quale prevede che al «31 gennaio di ogni anno sia emanato un decreto interministeriale per l’approvazione di un piano straordinario per la chiamata di professori associati per ciascuno degli anni 2011-2016». A tale proposito, si rileva che il Governo ritarda la risposta all’atto di sindacato ispettivo 5/04670, depositato il 28 di aprile scorso, sull’argomento in parola: evidentemente l’esecutivo non vuole chiarire i motivi di tale ritardo e neppure è in grado di prevedere quando sarà possibile attuare l’impegno. L’inadempienza ministeriale vanifica l’accesso al ruolo anche per i candidati che hanno già ottenuto l’idoneità con le vecchie procedure e smentisce una promessa sbandierato dal ministro durante la discussione parlamentare sulla legge medesima come soluzione per i giovani ricercatori e accolta nel dibattito parlamentare da alcuni gruppi come condizione per l’espressione del voto favorevole sul disegno di legge;
i rinvii e gli errori accumulati dal presente schema – severamente stigmatizzati da una fonte autorevole come il Consiglio di Stato – e in generale le inefficienze nella gestione dei fondi – dai ritardi dei Prin fermi al 2009 a quelli del FFO erogati solo nel 2011 per l’annualità dell’anno precedente, per non parlare della mancata assegnazione dei fondi PON per la ricerca nel Mezzogiorno – dimostrano l’inadeguatezza ministeriale, in particolare a gestire l’enorme carico amministrativo concentrato dalla legge 240;
dalle premesse si evince quanto il parziale provvedimento in esame sia inadeguato ad attivare efficacemente le procedure di abilitazioni e allo stesso tempo sia foriero di ulteriori ritardi;
pertanto, alla luce delle considerazioni in premessa, si esprime,
PARERE CONTRARIO

e si invita il governo a presentare all’esame delle Commissioni parlamentari uno schema di regolamento comprensivo dei criteri di valutazione e dei settori concorsuali e pertanto immediatamente attuativo, senza rinvii a ulteriori provvedimenti. Tale schema deve essere accompagnato da un ulteriore decreto ministeriale per autorizzare la piena funzionalità dell’Anagrafe dei professori e dei ricercatori e dal decreto interministeriale per il riparto tra gli atenei dei fondi relativi ai concorsi per il ruolo di professore associato.

http://www.camera.it/453?bollet=_dati/leg16/lavori/bollet/201107/0713/html/07#126n1