“Il paese è fermo”: quella dell´economista Nouriel Roubini è una constatazione che ha il sapore della verità. Che l´Italia sia un paese immobile è non da oggi un convincimento generale, la sentenza del tribunale di un´opinione pubblica internazionale. Ed è proprio qui che si cela il vero problema del paese. Sarà bene tenerlo presente per evitare ogni illusione sul futuro che ci aspetta.
C´è chi alimenta speranze su quel che accadrà sui mercati finanziari nei prossimi giorni e mesi: si crede o si vuole far credere che basti la prova di unità data dal Parlamento con l´approvazione della manovra finanziaria.
Lo crede, a quanto pare, anche l´irresponsabile premier nostrano, sparito dalla scena mentre passava l´onda di piena del pericolo – quando era il tempo per un vero statista di annunciare al paese lacrime sudore e sangue – e riapparso in Parlamento per promettere riforme future e garantire impunità presenti a se stesso e ai suoi. Sembra sfuggirgli il dato di realtà che riguarda lui e il suo governo: che sono, finché restano in piedi, il fattore primario della sfiducia internazionale sul sistema Italia. Non perché siano loro i responsabili esclusivi del declino sociale ed economico del paese: credere questo sarebbe prenderli troppo sul serio. Ne sono il simbolo, il prodotto, il frutto maleodorante di un sistema che sta marcendo. E per questo garantiscono agli occhi del mondo che il declino continuerà.
Il perché lo si può chiedere al passato recente e meno recente della società italiana. La storia offre a chi la interroga seriamente una prospettiva più ampia e impedisce di credere al carattere per così dire fatale delle forze che sballottano un´Italia tornata a essere “nave senza nocchiero in gran tempesta”. Si provi a sfogliare le serie storiche di dati statistici sui primi 150 anni di vita politica unitaria che l´Istat ha messo di recente su Internet. Lì c´è la nostra storia. E si possono scorrere grafici riassuntivi che sembrano quasi le linee della mano del paese: destini collettivi di uomini e donne (ma le donne arrancano a lungo e di rado riescono a raggiungere gli uomini), durata e durezza del vivere, studi, lavoro, rapporto con l´ambiente. Gli indici confortanti (vivere a lungo, lavorare, studiare, nutrirsi, riprodursi) descrivono una lenta, quasi impercettibile crescita ottocentesca, un innalzarsi della curva nel ´900 con le brusche cadute delle due guerre, uno scatto da inerpicata di sesto grado nei decenni mediani, un declino e una stagnazione alla fine del secolo scorso. Dagli anni ‘80 in poi il paese si ferma. Gli occupati nell´industria calano paurosamente, crescono i disoccupati, si arresta la crescita del livello di studi, il rapporto tra istruzione dei giovani e prodotto interno lordo vede l´Italia fermarsi lontano dai livelli dell´Europa non mediterranea. Qualcosa si blocca negli ingranaggi del paese; crollano i segni di quello straordinario dinamismo che aveva portato gli italiani a crescere – anche fisicamente (da 1,62 a 1,75 tra il primo e l´ultimo ‘900) – a diventare più produttivi, più colti, più uguali ai cittadini del mondo sviluppato nei consumi, nelle speranze di vita, nelle opportunità aperte ai due sessi.
Ora, un fatto è certo: di questo declino non si può dare la colpa a Berlusconi. Sarebbe riconoscergli un´importanza che non ha. Ma c´è qualcosa che gli appartiene: il contributo che l´accozzaglia da lui messa insieme ha fornito alla pesante battuta d´arresto del paese è l´averlo legittimato e cronicizzato. A una società che smarriva l´impulso alla crescita, agli apparati di partiti schiacciati dalle macerie del muro di Berlino e privi di idee che non fossero funzionali alla propria conservazione, è stato raccontato il sogno di un paese “delle libertà”: libertà dalle leggi, in primo luogo dal dovere civile di pagare le tasse in modo tollerabilmente equo. Il messaggio anarcoide ha avuto successo e non poteva essere diversamente. Non solo perché alla dura disciplina del lavoro produttivo è subentrato negli stili di vita dominanti un mondo dedito all´evasione e incline alla corruzione per evidenti necessità, visto che il sistema delle leggi rimaneva in vigore almeno sulla carta. Ma anche e soprattutto perché all´Italia che lavorava e offriva l´emancipazione attraverso il lavoro e lo studio è stata anteposta un´Italia dove si viene premiati o puniti per quel che si è, non per quello che si fa.
Si arriva così alla resa dei conti: dopo anni di pigri e sistematici tagli lineari a tutto ciò che si muoveva nella ricerca e nella scuola e nelle prospettive di lavoro dei giovani, il governo ha proceduto a colpire chi non può difendersi – pensioni, sanità, insegnanti – senza spostare di un millimetro gli equilibri di potere e di consumo di un paese bloccato, senza crescita. Non immobile, certo: la vita di un paese, come quella dei suoi abitanti, non resta mai immobile: cresce, ma può anche regredire e ammalarsi fino a morire.
Oggi agli occhi del mondo, il segno più grave della regressione italiana e dell´impossibilità che il debito statale sia pagato è dato proprio dalla permanenza al potere di chi ha sfruttato e garantito l´immobilità e l´iniquità sociale. Perciò il pericolo maggiore che ci incombe nell´immediato è che l´opposizione, dopo aver pagato un altissimo prezzo agli occhi della parte non corrotta del paese, non esiga adesso e subito una discontinuità secca nell´assetto del potere. è necessario che ci sia un nuovo governo, che le forze responsabili chiedano un corrispettivo di quel che hanno pagato. Questo per garantire al resto del mondo che l´Italia è credibile e che vuole cambiare. Il paese ha dato segni chiari e netti di volerlo fare. Se non vengono raccolti ora e subito, c´è il pericolo che la corruzione dilaghi senza freni e che la disperazione dei giovani senza lavoro si traduca nel disgregarsi non più silenzioso ma rapido e violento della costruzione unitaria che abbiamo appena finito di commemorare.
La Repubblica 18.07.11