«Le manette non vanno messe mai se prima non facciamo il processo. Se Papa ha commesso dei reati paghi, ma non va bene mettergli le manette prima, quando ancora non sappiamo se quello che ha fatto è da galera oppure no» . Ebbene sì: la frase è di Umberto Bossi. Lo stesso che neppure 24 ore prima, riguardo alla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del deputato pdl, era stato addirittura brutale: «Papa? In galera» . Il leader leghista parla da un barcone sul bacino di San Marco a Venezia. I giornalisti ammessi alla soirée bossiana per il Redentore sono stati selezionati: ammessi tutti, tranne il Corriere, Repubblica e la Stampa. Bossi, tuttavia, tiene soprattutto a esprimere solidarietà a Giulio Tremonti: «Per lui sono state due settimane difficili, anzi bollenti. Ma Tremonti non si tocca. La situazione non è tranquilla né per noi né per Tremonti. Ma lui è appoggiato dalla Lega» . Ma il caso nasce dalla sortita comprensiva nei confronti di Papa, probabilmente propiziata dal viaggio fatto con Silvio Berlusconi tornando da Roma venerdì sera. Dato che il voto su Papa sarà segreto, l’ipotesi che circola con insistenza è che ad alcuni deputati sarà dato l’ordine di votare contro l’autorizzazione all’arresto. Ed ecco Luca Paolini, uno dei due esponenti leghisti nella giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera: «La linea del partito è chiara: siamo per autorizzare l’arresto di Papa. Certo, se ci sarà il voto segreto, è possibile che qualche singolo parlamentare possa esprimersi diversamente» . Per buona parte della Lega, un vero incubo: lo stop all’autorizzazione nei confronti di Alfonso Papa darebbe un duro colpo alla credibilità del Carroccio. Eppure, nel movimento c’è chi ricorda un precedente. A voler credere a Francesco Tabladini, capogruppo della Lega negli anni Novanta poi fuoriuscito dal movimento e scomparso nel 2009, un comportamento del genere avrebbe un precedente. Nel suo libro «Bossi: la grande illusione» ha scritto che il capo padano nell’ormai celebre 29 aprile 1993 ordinò ad alcuni deputati di votare contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi per poi gridare subito dopo alla partitocrazia che autoassolve se stessa. Peraltro alla vicenda ieri Bossi ha accennato: «Mandare in galera una persona non ancora condannata, come Craxi, non è servito a nessuno, tranne a far andare in politica Di Pietro» . Un deputato di stretta osservanza maroniana scaccia l’immagine con un gesto: «Oggi, che senso avrebbe? Al governo siamo noi» . Forse il fare un ultimo favore a Silvio? «Macché. Non dimentichiamoci che il giorno dopo il no all’autorizzazione nei confronti di Craxi, ci sono state le monetine di fronte all’hotel Raphael. Noi non scherziamo con il fuoco» . Eppure, c’è chi pensa il contrario. Sul barcone leghista ieri sera non c’era alcun esponente nazionale del Carroccio. E se è per questo, neppure alcun esponente veneto di prima fila. Non il governatore Luca Zaia, non il segretario «nazionale» Gian Paolo Gobbo, non il capogruppo al Senato Federico Bricolo. Commenta a denti stretti un leghista della prima ora: «Forse qualcuno non ha capito che non è più tempo di noleggiare barconi che ricordano il Titanic» .
Il Corriere della Sera 17.07.11
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Il Carroccio e quel no a esecutivi tecnici Nell’area vicina a Maroni gradimento per il «modello Dini», di Marco Cremonesi
C’è poco da fare. Il governo di transizione, nel Carroccio, è un’ipotesi che viene presa in «doverosa» considerazione. Il voto per il via libera all’arresto di Alfonso Papa e soprattutto di Marco Milanese, la poco tenera «campagna di informazione» sulla manovra che il Pd lancerà da domani, il consolidarsi della proposta di riforma della legge elettorale che i Democratici presenteranno dopo la Direzione di martedì prossimo sono tutte tappe che al Carroccio impongono molta attenzione. Qualora il governo Berlusconi dovesse crollare— e se ciò dovesse accadere in autunno sposta di poco i termini della questione— nel Carroccio c’è una sola sicurezza ad accomunare le diverse anime del movimento: no al governo tecnico. Tra le camicie verdi, soprattutto quelle che rispondono a Roberto Maroni, si fa un discutere sulle differenze sostanziali tra «modello Ciampi» e «modello Dini» . Il primo è il simbolo del governo tecnico puro, come fu quello retto tra il 1993 e il 1994 dal futuro capo dello Stato nelle tempeste di Tangentopoli e dell’attacco alla lira. Secondo i leghisti, è la formula «che mette fuori gioco la politica e che oggi piacerebbe assai ai poteri forti e agli industriali» . Assai citato il nome di Mario Monti. Il governo guidato da Lamberto Dini tra il 1995 e il 1996 fu invece «assolutamente politico, con un esponente del precedente esecutivo a guidare una coalizione più ampia» . Inutile dire che al Carroccio piace assai di più la seconda ipotesi. Ma a differenza del 1995, il Partito democratico (allora Pds) nelle riflessioni del Carroccio rischia di restare fuori gioco. L’ipotesi che circola diffusamente ai piani alti del movimento è quella, semmai, di un enlargement che arrivi all’Udc e più in generale al terzo polo, magari con il rientro nell’alveo del centrodestra dei finiani. Il nome che circola da qualche tempo è quello di Angelino Alfano, di cui sono noti i buoni rapporti con Roberto Maroni. Ma i Democratici non disperano. In via riservata hanno già fatto avere al Carroccio la loro proposta di riforma della legge elettorale. Un sistema a doppio turno con una parte di proporzionale che è chiamato comunemente, anche se impropriamente, «all’ungherese» . Venerdì Maroni ha pranzato al ristorante della Camera con Enrico Letta, che scherzando lo ha salutato come nuovo premier. Con l’augurio che «il suo Gianni Letta, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio» possa essere Daniele Marantelli. Il deputato pd legato da pluridecennale amicizia con Roberto Maroni. e lo stesso Umberto Bossi e dunque il più noto tra gli sherpa del Pd presso il Carroccio. Al termine del pranzo, è arrivato anche Pier Luigi Bersani, che avrebbe ribadito a Maroni la necessità di un incontro meno occasionale. Ma, appunto, almeno per il momento, la Lega sembra guardare da tutt’altra parte. Anche se la voglia di cambiare una legge elettorale che oggi viene sentita come una camicia di forza — dato che obbliga a dichiarare le alleanze prima delle elezioni — è più forte ogni giorno che passa.
Il Corriere della Sera 17.07.11