La crisi del Tg 1, crisi di ascolti e di credibilità, ormai non è più un caso che riguarda soltanto la Rai o in generale il sistema televisivo italiano. È uno scandalo di regime. Il paradigma di una crisi più vasta, politica e istituzionale, che corrode lo Stato compromettendone la stabilità e la tenuta. L´agonia di un potere in coma irreversibile, attaccato disperatamente al respiratore artificiale di una tv subalterna e compiacente. C´è un danno emergente e un lucro cessante in questa parabola della maggiore testata televisiva nazionale. Ma anche qui non si tratta solo della Rai.
Per l´azienda di viale Mazzini, il danno emergente è rappresentato dal calo progressivo degli ascolti e di conseguenza della raccolta pubblicitaria: “La grande fuga”, la definì già un anno fa in copertina “Il Telespettatore”, mensile dell´Aiart, l´associazione degli utenti cattolici di cui è presidente Luca Borgomeo. Il lucro cessante è la svalutazione di un cespite aziendale, in termini di affidabilità, di autorevolezza e di prestigio. Ed entrambi i fattori favoriscono, naturalmente, la concorrenza privata che fa capo per lo più al premier-tycoon.
Ma per il Paese, per l´intera comunità italiana, l´asservimento dell´informazione pubblica al totalitarismo del regime televisivo costituisce una regressione civile, un´involuzione culturale e sociale, destinata comunque a incidere sulla coscienza collettiva, se non altro per difetto o anche solo per mancanza di un minimo di decenza: il “Minzulpop”, com´è stato efficacemente ribattezzato il Tg di Minzolini con un´allusione al Minculpop di Mussolini, il ministero della Cultura popolare fascista. La tv “cattiva maestra”, per dirla con Karl Popper. Mezzo di corruzione di massa.
Il servizio pubblico decade così a megafono del potere; amplificatore dei suoi interessi di pura conservazione e sopravvivenza; cassa di risonanza delle “veline” ufficiali, su carta o in carne e ossa, intese sia come strumenti di disinformazione o manipolazione sia come modelli femminili e oggetti del desiderio o del piacere. Da quell´alcova di Stato che la Rai è sempre stata nella sua storia, fin dall´epoca del monopolio televisivo di marca democristiana e poi anche socialista, il “carrozzone” di viale Mazzini rischia di ridursi ora all´harem del Sultano, una dépendance di Arcore, una filiale del residence incantato dell´Olgettina.
Dall´informazione all´intrattenimento, il declino denunciato pubblicamente dallo stesso presidente dell´Authority minaccia di estendersi con la forza del contagio all´intera gestione di quella che fu la più grande azienda culturale del Paese, a dispetto di tutte le esperienze, competenze e professionalità che può ancora vantare al suo interno. Due settimane fa avevamo lanciato da queste colonne la proposta di una “class action”, un´azione collettiva di responsabilità contro gli amministratori e i dirigenti infedeli della cosiddetta P4, subito raccolta da diverse associazioni dei consumatori come il Movimento per la difesa del cittadino, la Federconsumatori, l´Adusbef e Altroconsumo, a cui ha aderito poi con un´intervista all´Unità anche il direttore di Rai 4, Carlo Freccero. Ma, nonostante l´avvicendamento alla direzione generale, il vertice di viale Mazzini sembra insensibile alla protesta crescente dei telespettatori e renitente al dovere di difendere l´interesse aziendale nei confronti dei competitor.
Accade così che perfino un innocuo programma di intrattenimento familiare come “Ballando sotto le stelle”, condotto da una collaudata professionista della tv qual è Milly Carlucci, viene abbandonato all´assalto della concorrenza di Canale 5 che ha annunciato nei suoi palinsesti per la prossima stagione un programma simile intitolato “Baila” ovvero “Io ballo”. Mentre la Carlucci – insieme agli altri autori – si rivolge al tribunale per tutelare i legittimi interessi della trasmissione, il Palazzo di viale Mazzini non ha ancora deciso se intentare un´azione per concorrenza sleale o meno. E pensare che un caso analogo di sovrapposizione tra due trasmissioni musicali per bambini ha già prodotto un danno alla Rai, sia in termini di ascolti sia in termini di ricavi pubblicitari.
Non c´è da sperare che la tv di regime possa cambiare se non cambia il regime televisivo, con la sua logica perversa di egemonia e assolutismo. Ma prima devono cambiare i telespettatori, i cittadini e gli elettori italiani.
La Repubblica 16.07.11