Ormai gli italiani hanno capito, con triste chiarezza, il destino che li attende: per la grandissima parte di loro, il futuro porterà una riduzione del loro tenore di vita. Ci saranno più tasse, meno servizi pubblici e, molto probabilmente, un aumento dell’inflazione. D’altra parte, i moniti di Napolitano sulla gravità del momento, i riferimenti di Tremonti al Titanic e, soprattutto, i segnali che arrivano dai mercati finanziari sono troppo espliciti per coltivare ancora qualche illusione. Al di là delle recriminazioni sui ritardi con i quali si è affrontata la crisi, sulle ingannevoli promesse sparse a piene mani fino a qualche settimana fa, la necessità di una manovra correttiva sui conti dello Stato è largamente condivisa, anche se è del tutto legittima la discussione sul modo con il quale viene attuata da parte del governo. Ma i contrasti sul merito dei provvedimenti, questa volta, non costituiscono il più grave rischio per l’accettazione di queste misure, sia pure amare, da parte degli italiani.
Il passato, anche recente, ci insegna che l’appello ai sacrifici, in vista di un obiettivo importante o per evitare un grave danno collettivo, viene sempre compreso dai nostri concittadini, con un notevole e, spesso, persino sorprendente senso di responsabilità nazionale.
Il pericolo maggiore è un altro. La coincidenza temporale tra il varo di questa manovra e la diffusione di intercettazioni che rivelano un costume pubblico vergognoso e inaccettabile rende sconcertante l’assenza di una qualsiasi iniziativa, di una certa consistenza, per imporre tagli e sacrifici anche alla classe politica, nazionale e locale, che ci governa. Di fronte a una stretta sulla sanità, sulle pensioni, sui risparmi che arriverà a oltre 87 miliardi è prevista solo una ridicola diminuzione di quasi 8 milioni sui rimborsi elettorali per i partiti. Una percentuale facilmente calcolabile anche per i deboli in matematica: meno dell’uno per mille.
È chiaro che con i risparmi sulla politica non si salvano i conti dello Stato, ma quello che amareggia è il generale muro di gomma che respinge ogni tentativo di contenere le spese. Il tanto promesso taglio delle province è stato bocciato, non si annunciano decurtazioni di stipendi o annullamenti degli scandalosi privilegi pensionistici riservati a parlamentari e amministratori pubblici, né riforme per ridurre drasticamente i membri delle Camere, dei consigli regionali, comunali, circoscrizionali e delle amministrazioni pubbliche.
Non si tratta di sollecitare il qualunquismo nazionale contro il prezzo della democrazia o il facile moralismo contro una categoria che, come tutte, comprende persone oneste e non. Ma di manifestare la sorpresa per l’incredibile insensibilità di una classe politica che non si accorge degli umori dell’opinione pubblica e che rischia, proprio per questo, di alimentare qualunquismo e moralismo. Soprattutto in un momento in cui la credibilità di chi chiede ai cittadini sacrifici richiederebbe almeno un gesto simbolico, importante e significativo, di condivisione di quei sacrifici.
Come si può non comprendere l’effetto sull’opinione pubblica di una dichiarazione come quella dell’avvocato della Minetti che, con un candore stupefacente, mette sullo stesso piano il «regalino» di un’auto all’amica di turno con l’elezione a consigliere regionale? Un paragone che annulla completamente la differenza tra le spese di un privato cittadino e quelle pagate da tutti noi. Come non comprendere l’effetto sull’opinione pubblica per la pretesa che la moglie di un deputato debba raggiungere «ovviamente» lo stipendio di 35 mila euro al mese? Forse non sono provate responsabilità penali, cioè un effettivo scambio di favori, ma sembra di assistere a una nuova forma di quella che Di Pietro, quando faceva il magistrato, chiamava «dazione». Quella che potremo battezzare come «futuribile», quella che si fa in vista di un aiuto magari solo possibile o probabile.
Proprio perché in una democrazia liberale l’appello alla moralità pubblica non ha molto senso, ma quello che conta è il rispetto delle regole e delle leggi, si tratta di ridisegnare i confini perduti e, prima di tutto, quelli tra servizio dello Stato e servizio di interessi privati. A parte il conflitto più clamoroso, quello che tocca Berlusconi, il più recente esempio di questa confusione che ormai sta dilagando nella nostra vita pubblica riguarda la reazione degli avvocati che siedono in Parlamento contro l’ipotesi di abolizione del loro ordine. Anche in questo caso, come si fa ad ammettere che professionisti, eletti deputati o senatori, continuino tranquillamente a condurre i loro studi, senza avvertire il contrasto di interessi che si potrebbe determinare con il loro nuovo mestiere?
La democrazia ha un costo ed è giusto che i cittadini paghino il prezzo di un regime che si è dimostrato, almeno finora, il migliore di quelli comparsi da secoli nel nostro mondo. Ma è proprio delle democrazie l’impossibilità di accettare che tra governanti e governati ci sia un muro di distacco e di incomprensione. Purtroppo quel muro, in Italia, si sta alzando pericolosamente.
La Stampa 15.07.11