Con la manovra economica approvata dalle Camere in tutta fretta passerà la burrasca; ma l’Italia resterà sotto osservazione. Anche sui mercati finanziari, come nella vita di ogni giorno, la fiducia si perde in fretta, si riconquista a fatica. D’ora in poi, tutte le giravolte della nostra politica saranno tenute d’occhio; potranno costare care, ciascuna misurata sui tassi di interesse che lo Stato paga sui suoi debiti. Ieri Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della Banca centrale europea, ha notato che l’instabilità in Europa è frutto di errori che tutti i governi hanno compiuto, affrontando la crisi dei Paesi deboli «con interventi parziali e temporanei». Poi però ha aggiunto che se i mercati si sono mossi la settimana scorsa contro l’Italia, che ha problemi di lungo periodo – non immediati come quelli di Grecia, Irlanda, Portogallo – è a causa delle incertezze sulla politica di bilancio.
Lo si può dire in gergo tecnico, se si vuole, come fanno gli uffici studi: non c’è stato, nei giorni scorsi, alcun deterioramento dei dati fondamentali dell’economia italiana.
Solo nelle ore più agitate sono corse voci su una presunta fragilità delle nostre banche, che si sono presto rivelate prive di consistenza. Se le agenzie di rating si sono all’improvviso messe a disquisire su prospettive decennali o ventennali del nostro debito, è perché leggevano della nostra politica.
Draghi, ponendosi nella linea tracciata dal Capo dello Stato, ha invitato a trovare «un intento comune, al di là degli interessi particolari e di fazione». E’ questo spirito fazioso che si vede anche negli scandali scoperti dalla magistratura: alla propria parte politica si consente tutto, all’altra tutto si intralcia.
Ma se è così, quando giunge il momento di chiedere ai cittadini sacrifici, si rischia che ognuno risponda: perché a me e non agli altri? L’abitudine a rispettare le leggi si rivela un bene prezioso soprattutto nei momenti difficili. Tanto più se fino a ieri si era sostenuto che l’Italia usciva dalla crisi meglio degli altri Paesi; quando invece i dati ci dicono che anche prima della crisi mondiale stavamo cominciando a diventare più poveri, novità assoluta in tutto l’Occidente.
Nell’analisi della Banca d’Italia, si rischia ora che troppo del necessario risanamento di bilancio si faccia con le tasse, proprio con quelle tasse che l’attuale compagine politica aveva promesso, al contrario, di ridurre. E non si tratta solo di rafforzare le politiche di rigore che il ministro dell’Economia ha difeso nei giorni scorsi contro molti suoi colleghi. Vengono al pettine anche i nodi di una politica economica per così dire inerziale, del tipo «se non si può fare bene, meglio non fare nulla».
Mario Monti, personaggio del quale la nostra politica chiacchiera in questi giorni proprio perché si è costruito come figura al di sopra delle parti, rimprovera allo stesso Tremonti, scrivendo sul Financial Times, di non aver né privatizzato né liberalizzato, e inoltre di «non riconoscere il bisogno di accrescere la produttività e la competitività dell’Italia, e di abbassare le sue pronunciate disuguaglianze sociali».
Negli Anni 70, a soffocare la dinamica della nostra economia era stato un malinteso egualitarismo. Oggi, sostengono alcuni economisti, si rischia l’opposto, che a spegnere la voglia di intraprendere e di migliorare sia un eccesso di disuguaglianze di cui non si capisce la logica: tra giovani e vecchi, tra uomini e donne, tra stipendi d’oro e mille euro al mese con contratto a termine, tra i raccomandati e gli esclusi, chi si arricchisce con la politica e chi ne è fuori. A ben guardare, c’era disprezzo del merito allora, ce n’è oggi. Ed è premiare il merito il miglior incentivo a rispettare le leggi.
La Stampa 14.07.11