Colpite 11 milioni di persone fra Somalia, Kenya ed Etiopia. La fame. Ha una forza tremenda la fame, scuote spezza deforma annienta uomini, regioni, popoli. È metodica, lavora con pazienza, non ha fretta. Regala, tra tutte, la morte la più dimessa e silenziosa. Negli occhi di questi moribondi non si legge traccia di vita o di espressione. Molecola dopo molecola spreme i grassi e asciuga le albumine dalle cellule umane. Rende le ossa così friabili che si spezzano a toccarle, fa incurvare le gambe dei bambini, annacqua il sangue che scorre senza forza e senza peso, fa girare la testa, prosciuga i muscoli, corrode alla fine il tessuto nervoso. Questo è il primo passo: poi la fame svuota l’anima, caccia la gioia e la speranza, toglie la forza di pensare e provoca rassegnazione, egoismo, crudeltà, indifferenza.
Nell’Ogaden madri, accecate dalla fame, hanno gettato i figli nei pozzi asciutti, li hanno lasciati sul ciglio della pista appoggiati a un arbusto. Senza voltarsi indietro hanno ripreso a camminare, passo dopo passo. Cibo cibo, mangiare qualcosa, qualsiasi cosa: erba secca rifiuti rovi radici animali morti. Per la fame l’uomo perde ciò che lo rende uomo. Il luogo di cui parliamo si chiama Daab. Sta nel Kenya del Nord, a ottanta chilometri dalla frontiera con la Somalia. Perché se ne parla? Dieci, dodici milioni di persone vittime della carestia che rischiano morire di fame nel Corno d’Africa? Le cifre sono cose astratte, non ci dicono nulla. I volti sì. Quelli che incontri a Daab, il più grande campo di rifugiati del mondo: quattrocentomila persone, 54 mila soltanto a giugno, tre volte più che in maggio.
Poi nell’ultima settimana il ritmo è ancora accelerato, ventimila. Adesso ogni giorno ne arrivano quasi duemila. E poi ci sono gli altri, quelli rimasti nella boscaglia a segnare la strada, soprattutto bambini con meno di cinque anni scheletri sferzati dagli aridi e siccitosi venti del deserto, a far la guardia ad altri scheletri, le mandrie morte davanti a pozzi ormai asciutti che ardono nella canicola feroce. Un quarto dei somali sono in fuga dal loro paese ridotto a una plaga maledetta dalla guerra e dalla siccità. La loro colpa, se si potesse dire, è di non sapere quale sia. Se la carità internazionale li ricusa, se la pietà li respinge, nulla più li raccoglierà, nulla e nessuno li salverà. Gli uomini dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati si sfibrano a nutrire curare accogliere. Un nuovo campo dovrebbe sorgere a poca distanza di qui, altri sono già in progetto. Ma la carità internazionale si è fatta stanca, la Somalia evoca scompigli disastri e imposture.
Ieri il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, lanciando un appello per «undici milioni di uomini che nell’Africa dell’Est non possono attendere» perché «bisogna porre fine alla sofferenza ora, subito», ha ricordato che solo la metà del miliardo e mezzo di dollari necessari all’operazione di soccorso è disponibile. Ora tutti parlano della siccità, accusano la Natura. Come Elisabeth Byis portavoce dell’ufficio di coordinamento affari umanitari dell’Onu: «Niente di simile si vedeva da 60 anni, la siccità si è saldata a quella del ciclo precedente da cui queste zone non si erano ancora sollevate, il bestiame privo di nutrimento ha cominciato a morire e poi gli uomini, perché i prezzi delle derrate sono esplosi». Ecco gli elementi di quella che potrebbe diventare nei giorni prossimi «una tragedia di proporzioni ineguagliabili».
Certo la natura ha la sua colpa: la siccità è venuta e si è mangiata tutto, il verde, le colture, i corsi d’acqua, le acacie che intristiscono nella savana coperte di polvere. Eppure bisogna gridarlo perché non ci sia confusione, perché divisi dalla responsabilità non siamo tutti, alla fine, accomunati dalla menzogna. La Grande Fame (un’altra volta come venti anni fa, negli stessi luoghi, questo non vi dice nulla?) non dipende dalla meteorologia ma da un circolo chiuso disumano. In Somalia, nell’Ogaden etiopico, nel Nord del Kenya la gente convive con la siccità da sempre, si sposta si ingegna sfrutta ogni rivolo ogni pozza, resiste. Ciò che li uccide, che li trasforma in fuggiaschi che dipendono dalla carità sono la guerra e la politica. Da venti anni, da una carestia all’altra, la Somalia non ha pace: prima i signori della guerra, poi gli shabab, gli islamici che vogliono costruire sulla tragedia la loro società perfetta, divina.
Tutto è sconvolto e capovolto, non c’è lo Stato, neppure quello misero e scalcinato dell’Africa più disperata. Un popolo inerme è ostaggio della follia politica. L’Occidente, bravaccione e parolaio, ha osservato tutto questo con la curiosità acuta che destano le cose spaventose, poi imbronciato ha alimentato la guerra per sbarazzarsi degli islamici, senza sporcarsi le mani. Infine si è dimenticata di questa scaglia di umanità troppo complicata e periferica. Ora gli shabab hanno annunciato che consentiranno alle organizzazioni di soccorso di entrare nei territori che controllano per prestare aiuto. Prima che sia troppo tardi. Un’altra volta.
La Stampa 14.07.11