Mentre il Paese annaspa la Lega annuncia il trasferimento dei dicasteri a Monza. In 200 metri il surrogato (triste) del federalismo. Non il cielo, come cantava Paoli, ma il ministero in una stanza. Anzi, tre stanze, una per dicastero: in duecento metri quadri complessivi si consoliderà molto presto quel surrogato di sogno leghista di trasferire a Nord una parte della testa dello Stato, del governo. Dicono che sabato 23 luglio sarà tutto pronto, fervono i preparativi, cioè niente, a parte l’arrivo della mobilia. L’Italia rischia di colare a picco, gli italiani sopportano un brusco ridimensionamento del loro comfort vitale, ma c’è chi può permettersi di dare corpo ai propri capricci, a Monza, nella Reggia. Perché Bossi ha deciso che in quelle tre stanze del gran palazzo quasi tutto in pezzi alloggeranno lui, Calderoli e l’amico Tremonti: più cheun gesto politicamente rilevante, l’ennesimo dito medio alzato di fronte al paese, alla sua bandiera e, a dispetto delle carinerie opportuniste fin qui macinate dal leader leghista, anche al presidente della Repubblica. Pensano che la loro base sarà orgogliosa di loro e della loro strafottenza. Fondata su che cosa? Su uno stranissimo concetto di federalismo, intanto: che senso ha piantare la bandierina dello Stato alla periferia di Milano quando teoria e pratica del federalismo suggeriscono di potenziare le autonomie locali, di dare loro forza e potere? Intanto vanno avanti. Avanti coi mobili. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto computer: dovrebbero bastare, in fondo si tratta di arredare tre pied-à-terre, stanze ampie, belle finestre, sole, nebbia, verde parco, scuola. Scuola? Sì, proprio lì di fronte c’è una scuola, d’arte. Mille studenti, in lotta da tempo: non hanno i soldi per sistemare le aule, gli infissi, il materiale didattico, un altro complesso in desabillé, attirato dal vortice depresso che ha stretto nella decadenza più nera l’imponente reggia. Hanno chiesto spesso al ministero competente di intervenire, di aprire la borsa ma è stato loro risposto di starsene buoni, che i soldi non ci sono per nessuno.
Tranne che per la Lega e il suo kinderheim: vuole la bandierina di tre ministeri di fronte a quell’istituto scolastico e l’avrà. Giurano a costo zero ma sono balle. Per esempio: chi pagherà l’affitto delle tre stanze? Lo stesso governo che ha detto di no ai ragazzi della scuola d’arte ha deciso di rinunciare a riscuotere l’affitto da Bossi. Il ministero dei Beni culturali siede nel consorzio che gestisce la reggia e così ha regalato quel brandello di “castello”, fin qui usato proprio dal consorzio, alle bizze leghiste. Scrivanie, poltrone, telefono. Il telefono c’era già, useranno le lineeattivate con il restauro di quell’aladel palazzo. La Lega è tutta contenta: pensa che alla fine il gioco non costerà più di qualche decina di migliaia di euro. Bravi: converrà spiegarlo agli studenti lì accanto che l’operazione è un affare condotto in economia. Poi, saranno tutti e tre lì (Umberto, Roberto e Giulio) a contatto di gomito a raccontarsi di come ci si imborghesisce a Roma, di quanto i romani siano insopportabili e i napoletani sporchi. Il tutto sotto la bandiera di uno Stato di cui hanno provveduto a trasferire “a Nord” soltanto le insegne, quelle verso cui normalmente il grande statista leghista rivolge il dito medio. Questo insensato arrocco è tuttavia l’unico punto visibile del programma delle
“decisioni irrevocabili” alla concretizzazione delle quali la leadership del Carroccio aveva legato la sua permanenza nel governo di Berlusconi: lo avevano promesso a Pontida qualche settimana fa alla folla accalcata e sudata nel “sacro prato”, convinti che se la sarebbero bevuta come prova di forza nei confronti di “Roma ladrona”. Ma la base della Lega è meno fessa di quel che credono e sperano i fedelissimi di Bossi: un tempestivo censimento sull’indice di gradimento dell’iniziativa ha dimostrato che la maggioranza della base
se ne strafrega di quella bandierina a Monza e che la giudica un deprimente diversivo. Ora, bisognerebbe vedere come stanno fisicamente le cose attorno alle finestre dei tre ministri in barca padana. Il fabbricato è complessivamente un pugno nello
stomaco: cancelli arrugginiti, muri scrostati, persiane cadenti, il massimo per la scenografia di un film catastrofico. Ci sono perfino centinaia di lattine vuote gettate sul lastricato del cortile principale d’accesso, segno visibile che qualcuno ha bevuto durante il concerto di domenica scorsa e nessuno ha provveduto a toglierle di mezzo, non ancora.
La garritta del custode è vuota. Tutto è fermo, tranne, proprio sotto il tetto,uno stanco drappo tricolore che cerca faticosamente conforto nel forno estivo della pianura padana.
L’Unità 13.07.11