In questi cinque mesi sono state dette e scritte molte cose sulla manifestazione del 13 febbraio. Qualcuno ha pensato che la questione riguardasse solo le donne, altri hanno capito che quel giorno le donne parlavano per l’Italia intera. Così, il motto preso in prestito da Primo Levi, “Se non ora quando?” è diventato, oltre ogni nostra previsione, il via libera per uscire da una lunga stagione di individualismo e di paraideologie selvagge.
Il primo segnale di quel rinnovato spirito civico che si sarebbe poi espresso nelle amministrative, nei risultati referendari e nelle parole che stanno tornando alla ribalta nel lessico della politica italiana: partecipazione e condivisione. Il 13 febbraio è stato questo e tante altre cose che ancora non abbiamo finito di capire, se da quel giorno molte donne che non avevano mai fatto politica hanno dato vita a oltre 120 comitati locali, da nord a sud; se hanno continuato a incontrarsi per ragionare e discutere insieme. Perché il 13 febbraio quel milione e mezzo di donne e di uomini hanno dato voce, in forma di domanda, a un sentimento comune: un paese che non è per le donne, non è per nessuno. Se alcuni credevano che il fermento esploso il 13 febbraio avrebbe assunto le sembianze della protesta antipolitica, la due-giorni di Siena ha dimostrato l’esatto contrario: nella città toscana ha trovato spazio non solo la forza creativa e costruttiva delle donne – che non esclude certo il dialogo con i partiti e con le istituzioni – ma anche la consapevolezza che, in un clima di ascolto, le differenze non sono un ostacolo ma una ricchezza.
Per due giorni le donne hanno dato all’Italia una vera e propria lezione di democrazia, nei contenuti e nelle pratiche, mettendo insieme almeno tre generazioni, e – con loro – ad altrettante idee, proposte o testimonianze: nessuna deroga ai tre minuti concessi per ciascuno degli oltre sessanta interventi dei comitati, delle associazioni, delle politiche e di tutte le donne arrivate a Siena dalla Sardegna, dalla Sicilia, dal Piemonte o dalla Calabria.
Ci sarà certamente tempo per tracciare un bilancio più approfondito, ma intanto è importante fare tesoro di tre elementi emersi dall’incontro, e dai quali la nostra classe dirigente, tutta, potrebbe prendere spunto: 1) la compresenza intergenerazionale, che inanella il movimento studentesco a storiche associazione come Orlando; 2) l’uso creativo e strategico della rete, nella consapevolezza che i social network non possono, né oggi né domani, sostituirsi alla politica del confronto e delle relazioni; 3) la capacità di tenere insieme il paese, passando per i centri e per le periferie, da nord a sud, da Bolzano alla Locride. E ancora, su tutto: la consapevolezza che il movimento delle donne viene da lontano ma ha bisogno, per il futuro, di spazi aperti e inclusivi, che possano comprendere le voci di Souheir Katkhouda e della teologa Agnese Fortuna, della studentessa Sofia Sabatino e della Casa internazionale delle Donne, dell’imprenditrice Margherita Dogliani e delle giovani “archeologhe che resistono”. Non si tratta di cancellare le differenze ma di essere sagge abbastanza da capire che si può stare insieme per obiettivi condivisi senza perdere la propria identità, perché c’è bisogno di tutte per fare dell’Italia un paese anche per donne.
da Europa Quotidiano 12.07.11