Lo stato di salute di un Paese si misura anche dalle capacità di reazione, in difesa della soglia di decenza, che dimostrano le istituzioni ogni volta che la loro credibilità viene messa in discussione da scandali piccoli e grandi. Non v’è comunità al mondo che possa vantare di essere impermeabile alla corruzione, al malaffare e a tutti i moderni mali incurabili. Ma sicuramente ci sono modi diversi di far fronte alla «malattia».
Se è vero tutto ciò, dobbiamo concludere che le nostre istituzioni – e la politica in particolare – non godono di buona salute.
La recentissima vicenda che riguarda il ministro delle Politiche agricole, il «responsabile» Saverio Romano, per cui il gip di Palermo ha richiesto l’imputazione coatta per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ne è dimostrazione illuminante. Anzi, per il modo in cui la storia è stata affrontata dal protagonista, per l’assoluta assenza di reazione a livello istituzionale e di opinione pubblica (la comunicazione innanzitutto) – eccettuata quella addirittura precedente del Quirinale – non è esagerato affermare che l’«affare Romano» sia da considerare una vera e propria cartina di tornasole delle pessime condizioni in cui versa la vita pubblica italiana.
L’inchiesta giudiziaria su Saverio Romano non è esattamente roba da poco. Quelle indagini hanno portato già alla condanna definitiva dell’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, e riguardano un intreccio di boss e politica attorno ad un gruppo mafioso vicino a Bernardo Provenzano. Per una imputazione analoga, il concorso esterno, Giulio Andreotti ha subito un lungo processo, dopo una velocissima autorizzazione a procedere richiesta, tra l’altro, dallo stesso imputato eccellente che così si sentì libero di potersi difendere al meglio.
Ma il ministro Romano non ha avvertito la stessa necessità, neppure quando – ancora prima che il Gip decidesse per l’imputazione – il Capo dello Stato aveva esternato le sue perplessità sulla nomina avanzata dal presidente del Consiglio. Anzi, in quella occasione, l’allora indagato dava quasi per scontato che si andasse verso un sicuro proscioglimento e non ebbe esitazioni a presentarsi al Quirinale per il giuramento, accompagnato da moglie e figli, come in un giorno di festa. Era abbastanza chiara l’origine della forza contrattuale di Saverio Romano: la debolezza del governo che per garantirsi la maggioranza saldava il debito coi «responsabili» chiamati a riempire il vuoto lasciato dalla fronda dei finiani. La stessa forza che oggi gli consente di mostrarsi addirittura «sconcertato» per la decisione del giudice e di intravedere un «corto circuito tra le istituzioni e dentro le istituzioni».
Ma oggi qualcosa è cambiato, in peggio. Romano è imputato di mafia, eppure la cosa non sembra sollevare troppo scandalo. Certo, è possibile che funzioni da freno la condizione generale del Paese: c’è la crisi e la speculazione contro l’Italia, c’è lo scandalo Bisignani, l’inchiesta sull’uomo di fiducia del ministro Tremonti, il nostro garante presso i mercati europei e c’è un presidente del Consiglio condannato a risarcire una cifra da capogiro, dopo una lunga tornata mediatica (ed ora anche giudiziaria) che lo ha visto al centro di scandali a sfondo sessuale. Insomma, non stiamo bene. Ma proprio per questo, forse, la vicenda processuale del ministro Romano, passata quasi in sordina, finisce per assumere il valore di controprova del nostro malessere.
La Stampa 12.07.11