La condanna della Corte d’Appello di Milano è l’ultima tegola di una stagione di frane giudiziarie e di fallimenti politici. Incerto sul da farsi e fiaccato dai sondaggi il Cavaliere medita perfino le urne. Tra i suoi, infatti, avanza la suggestione di elezioni «in tempi brevi» che mettano nel conto perfino la possibile sconfitta. «Passaggio obbligato», questo, per preparare «un nuovo 2008» e il miraggio dell’ennesima «rinascita» dopo «quella che seguì al fallimento del governo Prodi».
«Io corruttore? Siamo alle solite, questa è una sentenza politica – si sfoga Berlusconi dopo il verdetto di Milano – Siamo all’ultimo anello della persecuzione giudiziaria…». E ce n’è per tutti i gusti a leggere le reazioni dei maggiorenti Pdl chiamati a far quadrato a difesa del capo. «Sentenza illegale», «verdetto comprato», «siamo al Tribunale di Mosca e all’inquisitore Vyscinskij», «ritorsione», «esproprio proletario», «clima da piazzale Loreto». Berlusconi, in realtà, la dava ormai per scontata «la mazzata» di ieri. Aveva provato a neutralizzarla approfittando di quel codicillo nascosto tra le pieghe del decreto legge sulla manovra economica, ma l’espediente «ad aziendam» si rivelò un boomerang e venne riposto nel cassetto in fretta e furia. Infuriato per la «sentenza farsa» di ieri, però, il Cavaliere medita di tornare ad inserire in qualche modo la «salva Fininvest» nella manovra che approderà in Senato. Un percorso irto di ostacoli, questo. E anche i fedelissimi, adesso, si mostrano scettici. «Si potrebbe tentare un accordo tra le parti per congelare l’esecutività della sentenza – auspica uno di loro – Varrebbe la pena provarci in attesa del responso definitivo della Cassazione…». Un verdetto negativo messo nel conto quello di ieri, l’ennesima tegola che il Cavaliere invincibile di un tempo non riesce a schivare.
«Tutto gli va storto», ammettono i suoi. Ieri, ad esempio, sperava di recuperare immagine volando a Lampedusa per «rendersi conto di persona», parole del sindaco De Rubeis, «di come l’emergenza sbarchi sia ormai superata». Il tentativo di neutralizzare mediaticamente dalla Sicilia il ko atteso a Milano, però, è andato regolarmente in fumo. Nella notte di sabato, infatti, quattro barconi salpati dalla Libia avevano scaricato sull’isola più di mille profughi, a dimostrazione che il problema immigrazione è tutt’altro che risolto. E Berlusconi. così, ha preferito cambiare rotta per rifugiarsi in Sardegna, nel buen retiro di Villa Certosa. Un premier «incerto sul da farsi», così lo descrive uno dei suoi.
Un giorno ostinato nell’andare avanti fino al 2013, l’altro pronto a mettere nel conto perfino «un proficuo periodo di rigenerante opposizione». «A chi pensate che siano rivolti gli inviti alla responsabilità che Letta rivolge ai membri del governo e che tracimano puntualmente fuori dalla stanza del Consiglio dei ministri? – chiede un esponente di primo piano del Pdl – Ecco, quegli appelli sono rivolti innanzitutto a Berlusconi…». Il Sottosegretario che consiglia prudenza e il Presidente del Consiglio che oscilla tra «il dovere di farsi carico dei problemi del Paese» e «i propositi incendiari». Il premier «sempre più isolato», in realtà, teme che la situazione precipiti e che la Lega si sfili. La tentazione delle elezioni anticipate, così, gli consentirebbe di «recuperare un rapporto forte con l’alleato di sempre preservando il nocciolo duro della sua maggioranza da capitalizzare alle urne con questa legge elettorale. Prima dei possibili referendum anti porcellum. Una eventuale sconfitta? Un periodo d’opposizione a un governo della sinistra costretto ad accollarsi le difficoltà della crisi economica – secondo questa tentazione – consentirebbe a Berlusconi di cavalcare il malessere per tornare in sella «contando su un rapido logoramento di un governo diverso». Un esecutivo tecnico retto «eventualmente» da Tremonti? Il Cavaliere, certo, «griderebbe al golpe e al ribaltone», ma «sfrutterebbe la rendita di posizione». Altro che Berlusconi pronto a fare «il padre nobile» e a passare la mano, quindi. Le suggestioni che viaggiano tra Arcore, Villa Certosa, Palazzo Grazioli e dintorni, a ben vedere, non fanno i conti con i drammi del Paese. E con un 2011 distante mille miglia dal 2008 e da quella «rivincita» che si è rivelata l’ennesima illusione berlusconiana.
da www.unita.it
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“I due «condottieri» in guerra da trent’anni”, di Rinaldo Gianola
Quando Marina Mondadori e il figlio Luca Formenton decisero di lasciare Carlo De Benedetti e di portare le loro azioni della casa editrice di Segrate sotto l’ombrello di Silvio Berlusconi era da pochi giorni caduto il Muro di Berlino. Il 2 dicembre 1989, la sera del “tradimento”, Michail Gorbaciov incontrava a Milano gli industriali e i banchieri al Castello Sforzesco: era venuto a chiedere aiuto e fiducia verso la sua perestrojka che stava cambiando, fino a distruggerla, l’Unione Sovietica. Sono passati ventidue anni, il tempo di una generazione. Ne sono trascorsi venti dalla corruzione da parte della Fininvest del giudice Metta che, pagato con 400 milioni di vecchie lire, trasferì indebitamente il controllo della Mondadori a Berlusconi. Oggi siamo qui tutti quanti a raccontare e a commentare la sentenza d’appello civile che ha stabilito in 560 milioni di euro il risarcimento dovuto dalla Fininvest alla Cir di De Benedetti. MaMa non è finita, ci saranno altri ricorsi, altre carte bollate, altri giudizi. La sensazione, anzi la certezza, è di assistere a un film già visto.
È vero che la giustizia ha bisogno di tempi lunghi, ma da questo confronto tra due grandi imprenditori, due “condottieri” della Prima Repubblica e oggi ancora in pista a litigare, fare affari, emerge la convinzione
che siamo un paese malato, siamo tutti malati. C’è unapatologia che ci avvolge collettivamente, la politica, l’economia, l’informazione.
Berlusconi e De Benedetti si fanno la guerra da una vita, ben prima del caso Mondadori. Le loro mosse hanno sempre interessato la politica e sono state sanzionate o appoggiate dai potenti di turno, in coincidenza con simpatie o interessi.
Già nel 1985 il cavaliere di Arcore scese in campo, chiamato da Bettino Craxi, per impedire all’Ingegnere di acquistare il gruppo alimentare Sme, per il quale aveva raggiunto un accordo con l’Iri guidato allora da Romano Prodi.
L’Ingegnere non riuscì a comprare la Sme e si infilò in operazione assai temerarie, Berlusconi rinunciò presto all’affare con i suoi soci di cordata Ferrero e Barilla. Naturalmente molti anni dopo c’è stato un processo con altre condanne di fedelissimi berlusconiani.
Manonostante i processi e le condanne patite dai collaboratori del fondatore di Mediaset, nonostante le leggi ad personam, il tentativo ripetuto di scappare alla giustizia, Berlusconi occupa ancora lo spazio della politica e del governo. E lo occupa perchè gli italiani gli hanno garantito per tre volte i consensi necessari a guidare il Paese. Questa è la realtà, piaccia o meno. Berlusconi e De Benedetti sono imprenditori di successo, individualisti come si conviene ai fuoriclasse, hanno comportamenti personali e interessi diversissimi, ma hanno in comune altre cose, anche se forse non vorranno mai ammetterlo. La loro origine è simile, nel mondo degli affari e dell’industria sono emersi come outsiders, lontani almeno inizialmente dai salotti finanziari e dalle oligarchie industriali. Hanno sempre giocato in proprio, mettendoci la faccia, tra successi e sconfitte.
E non si può dire che siano estranei alla politica. Nonlo può dire certamente Berlusconi allevato nella culla democristiano-socialista della Prima Repubblica, fino a mettersi in gioco personalmente quando nel 1992 Mani Pulite spazzò via i suoi protettori e sostenitori.
Anche De Benedetti non è certo lontano dalla politica e dal potere.
Da impreditore, «mi dichiaro capitalista e sono felice di esserlo» è la sua missione, si è cimentato con iniziative ambiziose. È stato il leader dell’Olivetti e si è inventato Omnitel, ha cercato di scalare la Sgb mettendo in agitazione le cancellerie di mezza Europa, ma vittima della sua bulimia d’affari è anche finito nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
Da editore non ha mai nascosto di voler assumere il ruolo di king maker di leader possibili o improbabili del centrosinistra, e qualche volta ha scambiato dei brocchi per degli autentici purosangue. Eugenio Scalfari che lo conosce bene ha detto: «De Benedetti è innamorato della politica come attività dello spirito, anche se qualche volta tende a trasportarvi i moduli dell’impresa».
Difficile pensare che Berlusconi abbia uno spirito ma certo il modello imprenditoriale in politica gli è riuscito con il suo partito azienda. Non si può nemmeno affermare, come ha fatto ieri il gruppo di De Benedetti, che in questa sentenza sul Lodo Mondadori la politica non c’entra perchè si tratta “solo” di una quesione di corruzione nell’ambito di un’operazione imprenditoriale.
Non è così. Se c’è stato un caso politico in Italia nelmondodegli affari degli ultimi decenni questo è la battaglia per la Mondadori. Lo disse lo stesso Carlo De Benedetti, qualche giorno dopo il “tradimento” dei Formenton nel dicembre 1989. Chiamò nella sede Cir di via Ciovassino quattro giornalisti e, con accanto il figlio Rodolfo, denunciò: «In questa vicenda ci sono state pressioni politiche alla grande». Facili immaginare a chi pensava l’Ingegnere, agli epigoni del Caf, a Craxi, Andreotti, Forlani.
E la politica ha sempre accompagnato questa partita, tanto che fu il leggendario Ciarrapico a chiudere anni dopo l’accordo per la spartizione della Mondadori e delle sue partecipazioni, tra le quali c’era anche il quotidiano la Repubblica, tra la Fininvest e la Cir.
La politica èsempre stata dentro il casoMondadoriper il semplice fatto che in Italia, ma soprattutto oggi il potere, il comando si esercitano o si influenzano attraverso i giornali, le tv e le banche. Lo storico, lungo conflitto tra Berlusconi e De Benedetti non è solo una legittima e comprensibile contesa imprenditoriale, è stato anche uno scontro di interessi, politico, tra chi immaginava come Craxi che l’Ingegnere fosse «il capo di una lobby finanziaria editoriale, il leader del partito trasversale» e chi invece gli riconosceva un ruolo di cambiamento nell’industria e nella finanza con le sue idee innovative, provocatorie, e anche nella politica attraverso l’influenza dei suoi giornali sull’opinione pubblica progressista.
Affermare che De Benedetti è di sinistra, anche se desiderava la tessera numero uno del partito democratico, come dicono i fedelissimi del premier, è un po’ azzardato.
L’Ingegnere spiegò cosi anni fa, in un’intervista all’Independent, la ragione di questo sospetto di sinistra:«Nel mio paese mi considerano un comunista perchè una volta dissi che una democrazia non è una democrazia fino a quando non c’è possibilità di cambiamento. Siccome nel mio paese i comunisti sono un terzo dei voti la gente pensò che volevo i comunisti al governo…».
Berlusconi e De Benedetti stanno invecchiando enon hanno ancora finito di confrontarsicomei duellanti del romanzo di Joseph Conrad.
Ma i tenenti ussari Armand d’Hubert e Gabriel Feraud si sfidarono per tutta la vita, nel segno dell’onore e dell’amore per una donna, mentre attorno crollava l’impero di Napoleone. Il Cavaliere e l’Ingegnere continuano la loro guerra infinita. Intanto l’Italia crolla.
da L’Unità