I regimi politici cadono in due modi: o perché sono sconfitti o per sfarinamento interno. Nel primo caso, il crollo può essere cruento, ma i vincitori riescono rapidamente a diventare una credibile classe dirigente alternativa. Nel secondo, l’agonia può essere molto lunga e molto pericolosa, perché lascia il Paese senza una guida sicura e in balia degli eventi. Com’era facilmente prevedibile, la fine del berlusconismo in Italia sta seguendo quest’ultima forma. Un modello che si potrebbe sintetizzare, anche in rima, così: dissoluzione senza soluzione.
L’ultima ondata di scandali che si stanno abbattendo sul centrodestra avrà un effetto, in apparenza, paradossale e contraddittorio. Da una parte, ha bruciato la candidatura delle due più forti personalità ministeriali alla successione di Berlusconi, prima quella di Gianni Letta e, ora, quella del superministro dell’Economia, Giulio Tremonti; con risultati devastanti, sia per l’immagine del governo, sia per l’efficacia della sua azione. Dall’altra, costringerà tutti i ministri, a cominciare da quelli più sotto schiaffo giudiziario, a una resistenza e a una convivenza obbligata.
Ecco perché, nonostante il clima pessimo che si respira nella Roma politica, il quarto ministero Berlusconi rischia, sì, di non poter governare con sufficiente credibilità, specialmente in un momento in cui chiede sacrifici agli italiani. Ma rischia anche di durare, perché sia nella maggioranza, sia nell’opposizione, non solo non è pronta una vera alternativa, ma non c’è molta voglia e molto interesse a cercarla. Una prospettiva davvero inquietante per gli italiani, con un’unica variabile a questo scenario, quella di un attacco della speculazione finanziaria internazionale contro il nostro Paese, ipotesi che proprio ieri si è affacciata sui mercati e che, certamente, è ancora meno confortante.
Il quadro della situazione nei principali partiti è abbastanza chiaro. La Lega, ormai azionista di riferimento nella maggioranza, non ha alcun interesse, ora, a rompere l’alleanza con Berlusconi. Sia perché è molto difficile che possa immaginare un governo diverso che possa assicurarle un maggior potere, sia perché anche in quel partito è cominciata una lunga, logorante e molto incerta lotta alla successione del leader carismatico (o ex carismatico), Umberto Bossi.
Pure nel Pdl gli equilibri interni sono precari, dal momento che l’investitura di Alfano è troppo recente perché si possa ritenere accettata da tutti e, soprattutto, il ministro della Giustizia deve ancora intraprendere un difficile cammino tra due precipizi: quello di apparire un segretario senza autonomia da Berlusconi e, quindi, con poca autorevolezza e quello di sembrare averne troppa, snaturando la fisionomia di un partito che forse può esistere solo se guidato dal suo fondatore.
Al di là di questi problemi, però, il Pdl si trova, forse per la prima volta, davanti a un dilemma concreto e quasi drammatico. La manovra concepita da Tremonti, infatti, colpisce direttamente gli interessi proprio di quel ceto medio che costituisce il nocciolo duro del suo elettorato. Quello che vede decurtati i già miseri interessi dei titoli di Stato che detiene in banca. O quello che è preoccupato per la nuova tassazione sulle partite Iva. D’altra parte, il Pdl sa bene che il ministro dell’Economia è considerato, all’estero, l’unico baluardo allo sfondamento dei conti pubblici italiani. Una sua uscita di scena, se la manovra fosse stravolta in Parlamento, potrebbe segnare il via libera alla più sfrenata speculazione internazionale contro l’Italia.
Anche la principale forza d’opposizione, infine, preferirebbe aspettare momenti più propizi per accollarsi un impegno governativo, così gravoso in circostanze come queste. Bersani, negli ultimi mesi, si è guadagnato sul campo la candidatura del Pd a Palazzo Chigi per le prossime elezioni. Ma il partito sente la pressione di un movimentismo, alla sua sinistra, che per un verso rischia di sedurre, con un facile populismo, una buona quota del suo potenziale elettorato e, dall’altra, potrebbe riportarlo ai tempi nefasti delle «gioiose macchine da guerra».
In queste condizioni, sono inutili gli appelli al bon ton governativo, perché non si può immaginare che le forme non rispecchino la sostanza di questa implosione governativa. Come gli appelli alle responsabilità istituzionali, perché le virtù morali dei singoli sono già abbondantemente messe in dubbio dalle cronache quotidiane. E’ più interessante cercare la risposta a una domanda: stiamo assistendo alla fine del berlusconismo o alla fine del sistema della seconda Repubblica? L’offensiva della magistratura sulla politica ricorda l’epoca di «Mani pulite». Il distacco dei leader dagli umori degli italiani, dimostrato anche nei recenti referendum, fa pensare agli inviti craxiani di «andare al mare». Il dilagare di forme nuove nella protesta antipartitica rievoca l’epopea del «popolo dei fax». E’ vero che la storia non si ripete e, forse, la memoria è d’inciampo per scrutare il futuro. Ma la seduzione dei ricordi, qualche volta, è davvero troppo forte.
da www.lastampa.it
******
«Tremonti disse a Berlusconi: “Con me niente metodo Boffo”»
Il verbale dell’interrogatorio del ministro sentito dai pm di Napoli nell’inchiesta P4
come persona informata dei fatti
Nella migliore delle ipotesi una discussione animata, partita dalle diversità di vedute sui conti pubblici e sulla manovra economica e finita con un messaggio chiaro ed esplicito: «Non sarò vittima del metodo Boffo». Dall’interrogatorio del ministro dell’Economia Giulio Tremonti – sentito dai pm napoletani Francesco Curcio ed Henry John Woodcock come persona informata sui fatti nell’ambito dell’inchiesta sulla P4 – emergono i contrasti tra il titolare dell’Economia e Silvio Berlusconi. Così come è molto dettagliata l’analisi che il ministro Tremonti fa della situazione all’interno della Guardia di Finanza, finita al centro della bufera perchè è all’interno del Corpo – stando alle accuse contenute sia nell’ordinanza d’arresto per Bisignani e del deputato Alfonso Papa sia in quella per il parlamentare del Pdl Marco Milanese – che vanno cercate le ’talpè responsabili della fuga di notizie.
Ed è proprio da qui che partono i pm, sentendo Tremonti domenica 17 giugno nella sede della Dia a Roma. Al ministro, Curcio e Woodcock chiedono se sappia qualcosa di presunte «cordate contrapposte» di alti ufficiali all’interno della Gdf. «Tutto sommato, a distanza di qualche tempo – risponde Tremonti – mi vado sempre più convincendo del fatto che la rimozione dell’impedimento di legge a che gli alti ufficiali della Gdf potessero ricoprire l’incarico di comandante generale è stata per un verso positiva, poichè al vertice del Corpo viene nominata persona che conosce le problematiche…ma ha portato anche conseguenze negative, nel senso che si sono creati meccanismi di competizione tra possibili candidati». In sostanza i generali, nella prospettiva di diventare comandanti, «hanno preso a coltivare relazioni esterne al corpo che non trovo opportune».
Di queste “frequentazioni” Tremonti rivela di averne parlato con l’attuale comandante Nino Di Paolo, il primo a provenire dalle Fiamme Gialle e «persona che stimo particolarmente». «Nella mia qualità di ministro… mi sono permesso di suggerire – dice – di dare alcune direttive, nel senso di avere un tipo di vita più sobria. Possiamo dire che gli dissi: “meno salotti, meno palazzi, consegne in caserma”». È a questo punto che l’interrogatorio vira decisamente sui rapporti con il premier. I pm gli fanno sentire la telefonata del 7 giugno scorso tra il capo di Stato maggiore della Gdf, il generale Michele Adinolfi (indagato nell’inchiesta della P4 per rivelazione del segreto e favoreggiamento) e Berlusconi e gli chiedono se quest’ultimo avesse utilizzato strumentalmente le Fiamme Gialle contro di lui. «Non ho mai detto a Berlusconi – risponde Tremonti – che lui mi voleva far fuori tramite la Gdf. Ritengo che Berlusconi abbia fatto un erroneo collegamento fra diverse frasi da me pronunciate».
Poi i magistrati chiedono se della situazione all’interno delle Fiamme Gialle Tremonti ne avesse parlato con il premier. E il ministro ammette di averlo fatto «in modo caratterialmente reattivo»: «Si trattò di uno sfogo». «Con il presidente del Consiglio ebbi una discussione…, seguito di precedenti discorsi sulla politica in generale, sulla manovra di pareggio economica…pochi giorni prima della conversazione – mette a verbale il ministro -…Io e il presidente del Consiglio manifestammo posizione diverse sulla politica di bilancio» e ad un certo punto Berlusconi manifestò «posizioni fortemente critiche in ordine alla mia attività di ministro». Le parole del premier, assieme al fatto che «in parallelo su alcuni settori della stampa si manifestava una tendenza, una spinta alle mie dimissioni se non avessi modificato le mie posizioni», fecero scattare la reazione di Tremonti: «Manifestati la mia refrattarietà ad essere oggetto di campagne stampa tipo quella “Boffo”. Ciò trovava riscontro in voci di Parlamento che mi sono permesso di segnalare al Premier».
Più avanti il ministro precisa che il suo riferimento non alludeva «all’utilizzazione di notizie di carattere giudiziario e riservate per fini strumentali» bensì «alla propalazione sui mass media di notizie riservate e/o infondate atte a screditare chi viene preso di mira». Un’altra stoccata al premier arriva quando il ministro affronta il rapporto tra Adinolfi e Berlusconi. La telefonata tra i due «non mi sorprende – mette a verbale – poichè avevo già voci in Parlamento del rapporto di amicizia o comunque di conoscenza di Adinolfi con il presidente Berlusconi, attesa la comune passione per il Milan». Ma quando gli chiedono se rientra nella «fisiologia istituzionale» un «rapporto diretto» tra presidente del Consiglio e capo stato maggiore della Gdf, lui risponde così: «per quanto di mia competenza, mi attengo a criteri istituzionali diversi, e cioè mi relaziono solo con il comandante generale del Corpo».
da www.lastampa.it