L’ affondamento dell’ultima norma «ad personam», inserita nel testo della manovra finanziaria di nascosto e ritirata precipitosamente ieri dal premier, porta con sé una novità, si direbbe un segno dei tempi, mai emerso finora così chiaramente: come ha dovuto ammettere nel comunicato vergato, non a caso, in prima persona, Berlusconi, al cospetto dei suoi guai giudiziari, è rimasto solo. Completamente solo. Gli uomini che gli sono sempre stati al fianco, in numerosi e difficili frangenti come questi, si sono defilati uno dopo l’altro.
Ghedini, proprio lui, il deputato-avvocato autore dei tanti lodi con cui il Cavaliere è riuscito a fasi alterne a limitare le conseguenze dei suoi processi, ha disconosciuto il testo con cui si tentava di dilazionare gli obblighi derivanti da sentenze civili che impongono risarcimenti molto onerosi. Tipo quello che l’azienda di famiglia del premier rischia di dover sopportare se i giudici di appello di Milano, nel prossimo fine settimana, confermeranno il verdetto che ha imposto il pagamento, prima di 750, poi di 490 milioni, per l’acquisizione della Mondadori, strappata al gruppo Cir di De Benedetti grazie alla decisione di un giudice condannato per corruzione.
Alfano, il ministro di Giustizia e neosegretario del Pdl che venerdì aveva auspicato dal palco della sua elezione un «partito degli onesti», è rimasto silenzioso. E Tremonti, che dopo una trattativa difficilissima aveva licenziato una manovra diversa da quella poi mandata al Quirinale con l’aggiunta della norma contestata, ha addirittura fatto saltare la conferenza stampa convocata per illustrare le misure del governo.
Un fuggi-fuggi generale. Poiché è impossibile, al di là di quel che vorrebbero far credere, che le persone più vicine e più direttamente coinvolte nella vicenda non sapessero, o non fossero intervenute, nel fine settimana in cui il testo da trasmettere al Capo dello Stato è stato rimaneggiato e adattato alla bisogna, se ne ricava che Berlusconi è stato abbandonato al suo destino e mandato a sbattere contro un muro proprio dai suoi, come il suo comunicato personale, al di là delle accuse di prammatica all’opposizione, testimonia chiaramente.
Si dirà che non c’era altra possibilità per evitare che il Capo dello Stato fosse costretto a respingere l’intero testo della manovra viziato dal codicillo «ad personam». Ed è un bene che la conclusione della vicenda sia stata questa: un rinvio della finanziaria avrebbe determinato conseguenze economiche gravissime e reazioni internazionali sconcertate, in un momento in cui l’Italia è un Paese sotto osservazione. Magari avranno provato tutti insieme – Ghedini, Alfano, Tremonti, per non dire di Letta, che doveva materialmente inviare il testo al Colle -, a convincere il Cavaliere dell’impraticabilità della soluzione proposta. In una manovra in cui – non è ancora certo, si vedrà – è atteso anche un taglio dei privilegi della classe politica, figuriamoci se poteva esserne inserito uno a parte, tutto nuovo, ritagliato su misura per soccorrere nuovamente il premier. Sia come sia, la novità sta nel fatto che alla fine Berlusconi è stato mollato. E, infuriato, ha dovuto suonarsi da solo la ritirata.
Intendiamoci, era già successo in passato che il Cavaliere avesse dovuto far marcia indietro sulla scelta di un ministro o su una proposta di riforma. Ma mai in materia di giustizia e mai sulla guerra senza quartiere che da anni lo oppone alla magistratura. Proprio perché il Pdl gli ha sempre riconosciuto la condizione di perseguitato, il terreno dei guai giudiziari è rimasto fuori da qualsiasi faida interna di partito, e talvolta ha funzionato, come lo stesso Alfano ha dovuto riconoscere all’atto della sua elezione a segretario, da comodo ombrello anche per quelli che in tutta evidenza perseguitati non erano. Per questo, fino a sei mesi fa, o a poche settimane fa, quando il Pdl a Milano organizzava manifestazioni davanti al Palazzo di giustizia nei fatali lunedì delle udienze del premier, nessuno si sarebbe sognato, non soltanto di dissentire, ma neppure di accarezzare il nervo più scoperto del Cavaliere.
Siamo dunque a una svolta. Maturata nel caos, come accade sempre attorno a Berlusconi, ma gravida di conseguenze. Se davvero il premier non è più padrone di se stesso, né del suo partito, le cose possono cambiare più rapidamente di quanto si poteva immaginare fino a qualche giorno fa. Il suo lento declino, che si trascina da mesi, potrebbe diventare inesorabile. Per ragioni politiche, oltre che giudiziarie, e con conseguenze terribili: come fa presagire il desiderio di vendetta che si affaccia tra le righe dell’ultimo, furioso, comunicato, uscito da Palazzo Chigi.
La Stampa 06.07.11