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"Ora basta ambiguità", di Gianfranco Morgando

In Valle di Susa il confine tra la legalità e l’illegalità sarebbe superato. Le violenze di domenica rappresentano una sconfitta per gli amministratori locali le cui legittime critiche al progetto e richieste di confronto hanno finito per essere travolte dall’incapacità di distinguersi da chi ha costruito la piattaforma della manifestazione sulla parola “assedio”. E dimostrano che non è più possibile la convivenza tra chi intende rappresentare gli interessi delle comunità locali e chi li strumentalizza per finalità di violenza ed illegalità.
Dissentire è legittimo, ma la vergognosa aggressione portata contro le forze dell’ordine e gli operai non è avvenuta per caso, perché è stata chiaramente annunciata e preparata. I fatti di domenica sono la logica conseguenza delle irresponsabili parole d’ordine pronunciate da parte di chi ha invocato l’assedio al cantiere, nonché del clima di paraguerriglia creato da chi ritiene di poter agire al di fuori delle leggi dello stato. Una minoranza fanatica ha “militarizzato” la Valle prima usando linguaggi bellicosi (parlando di «truppe», di «battaglia di tutte le battaglie» o invocando pericolosi parallelismi con i Paesi Baschi), poi erigendo barricate e check point, come se la Valle di Susa fosse una zona “santuario” per la quale le leggi italiane e le decisioni assunte in Europa, nel parlamento, in regione Piemonte e in provincia di Torino non avessero alcuna rilevanza. Questa minoranza fanatica non è interessata al dialogo, ma solo allo scontro e gli amministratori locali non sono mai stati in grado di isolarla e contrastarla.
Siamo consapevoli delle criticità di un’infrastruttura così imponente e siamo convinti che si debba realizzare nel modo meno impattante per la Valle e i suoi abitanti.
Non siamo di fronte a un’opera che porterà dietro di sé scenari apocalittici, di distruzione ambientale e di perdita di vite umane come qualcuno, in male fede, vuole far credere ai valsusisni. Ci troviamo di fronte a un percorso elaborativo ed approvativo particolarmente garantista ed esiste tutto il tempo per affrontare le questioni più delicate (in particolare la cantierizzazione), se si accetta di discutere del merito e non di condurre uno scontro ideologico. Per questo i sindaci devono accettare un confronto politico e tecnico sulle caratteristiche di questa infrastruttura e sulle sue modalità di realizzazione.
L’avvio dei lavori a Chiomonte per l’allestimento del cantiere del tunnel geognostico ha segnato un punto di non ritorno nella complessa vicenda della realizzazione della Torino-Lione.
Siamo a uno snodo cruciale: o verrà rispettato il cronoprogramma indicato dall’Ue oppure i finanziamenti saranno dirottati altrove e il Piemonte perderà l’occasione per realizzare un’infrastruttura strategica.
Il dibattito intorno al “se” fare l’opera è archiviato da tempo, ora si tratta di dare piena attuazione a quanto promesso, in particolare garantendo la certezza delle risorse finanziarie per le compensazioni, per il trasporto pubblico locale e per gli interventi previsti dal piano strategico.
Grazie al lavoro del Pd in parlamento, il governo ha precisato che il progetto della Torino-Lione non è sottoposto alla nuova norma che riduce dal 5% al 2% le risorse previste per le compensazioni ed ha garantito l’impegno ad aggiungere altrettante risorse per gli interventi previsti in Valle di Susa.
Il Partito democratico è la forza politica che in questi anni si è battuta con m a g g i o r e determinazione e coerenza per giungere a un progetto che tenga conto delle esigenze del territorio (l’attuale progetto preliminare è radicalmente diverso da quello del 2005) e per garantite reali ricadute positive per la Valle di Susa.
Siamo convinti che la realizzazione della Torino-Lione rappresenti una grande occasione di sviluppo per la Valle di Susa, rimettendo la Valle e tutto il Piemonte al centro dei flussi internazionali e scongiurando un destino fatto di isolamento, di declino e di marginalità economica.
Abbiamo più volte detto, e lo ribadiamo con fermezza, che il Pd non accetterà alcuna confusione tra chi pratica o giustifica la violenza da un lato e i rappresentanti dei cittadini e i propri dirigenti dall’altro, pertanto non vi deve più essere alcuna partecipazione comune a manifestazioni o iniziative.
Il tempo delle ambiguità e degli abili è finito. È giunto il tempo della coerenza e, soprattutto, della responsabilità politica e istituzionale.

da Europa Quotidiano 05.07.11

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“Non sarà un ecomostro”, di Antonio Saitta

Mi occupo della Torino Lione ormai da un decennio.
Sono stati anni lunghi e difficili, caratterizzati all’inizio dalla sottovalutazione nazionale e locale del tema fino alla svolta del dicembre 2005, quando lavorando con determinazione abbiamo istituito l’Osservatorio tecnico affidato a Mario Virano. Con l’obiettivo di dotarci di una sede per il confronto tecnico e la discussione collegiale tra i diversi soggetti – lo stato, la regione, la provincia, le amministrazioni locali – e fornire gli strumenti necessari a una decisione consapevole sull’opportunità ed i modi di realizzazione di una linea ferroviaria.
Parliamo di un’infrastruttura che collega all’Europa il nostro territorio, indispensabile per trasferire il traffico merci dalla strada alla ferrovia liberando le linee tradizionali per il trasporto pubblico locale.
Eppure oggi sembra che si voglia creare un ecomostro! L’Osservatorio è stato per anni uno strumento di governance unitaria, un’esperienza inedita nel panorama italiano. Ha ricercato una soluzione concordata e condivisa con le comunità locali, rivedendo da cima a fondo un progetto che all’inizio le Ferrovie avevano disegnato solo sulla carta. Ha affrontato subito il tema dell’opportunità e delle modalità di realizzazione e nel giugno 2008 a PraCatinat ha raggiunto un accordo tra i diversi rappresentanti sulla necessità di attivare immediatamente sulla linea storica esistente azioni concrete per il trasferimento modale delle merci dalla gomma al ferro, dare immediata attuazione alla nuova strutturazione e a un’efficace organizzazione del trasporto passeggeri su ferrovia, azzerare tutte le progettazioni precedenti, riavviare una nuova fase di progettazione preliminare unitaria. Si è deciso di progettare tenendo conto delle caratteristiche e delle esigenze del territorio fin dalla fase di impostazione, estendendo il tema della progettazione dall’opera (la ferrovia) al territorio.
Si è deciso di superare la logica meramente compensativa puntando sulla qualità degli interventi e dei requisiti del territorio come minimizzare ulteriori carichi ambientali, nuovo consumo di suolo e duplicazione di corridoi infrastrutturali.
La terza fase dell’osservatorio è iniziata nel febbraio 2009 con l’approvazione del documento di specifiche tecniche che ha dato il via alla progettazione preliminare dell’opera; è stato sottoscritto da tutti i componenti il piano dei 91 sondaggi nei territori interessati, omologo a quello dei 169 sondaggi effettuati in Francia. Il piano ha preso l’avvio a inizio 2010 con una mole di documentazione acquisita preventivamente da ben 104 Enti interpellati, che ha consentito di predisporre un database di cui i nuovi sondaggi colmano proprio le lacune conoscitive.
Le specifiche tecniche alla progettazione sono entrate a far parte integrante del bando di gara e nel gennaio 2010 l’Osservatorio ha approvato il documento sugli indirizzi operativi che costituisce il riferimento per la redazione del progetto preliminare, conclusa a giugno 2010. Un percorso progettuale accompagnato da attività parallele: lo studio di impatto ambientale, l’analisi costi-benefici e l’esame puntuale delle ricadute territoriali attese in base al progetto e alla cantierizzazione nel solco dell’esperienza francese della démarche grand chantier.
Senza dimenticare che nel marzo 2009 la provincia di Torino ha redatto il piano strategico dei territori interessati alla Torino-Lione, su incarico del ministero delle infrastrutture, dal quale risulta necessario utilizzare nuovi strumenti per rendere l’opera infrastrutturale vantaggiosa anche per le collettività territoriali; il 5% dell’ammontare dell’intero progetto sarà destinato al territorio e c’è già la traccia da seguire.
Fin qui la sintesi di anni di confronto e riscrittura del progetto, dal 2005 in poi. Dopo tanto confronto, non posso sentire chi ci accusa di non aver ascoltato il territorio, non posso pensare che i sindaci che sfilano ancora a fianco dei no tav stiano interpretando al meglio il loro ruolo istituzionale. Ci sono stati anni di tavoli e di confronti, occasioni che qualcuno di loro ha sprecato. Se questi amministratori vogliono rendere un vero servizio alla Valle, riflettano all’indomani della domenica di violenza pura che abbiamo vissuto e si rendano conto di aver abdicato, per incoscienza prima, forse per paura poi.
Non sono stati loro i condottieri della protesta no tav. Ieri i violenti li hanno esautorati per l’ultima volta, prendendosi con le molotov e i bastoni uno spazio senza ritorno. Ora i sindaci no tav hanno una sola possibilità: rivendicare il lavoro compiuto negli ultimi anni dall’Osservatorio per migliorare il progetto e tornare ad essere interlocutori meno spaventati e più seri. Per il bene di tutti.

da Europa Quotidiano 05.07.11

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“Se manca la visione del futuro”, di IRENE TINAGLI

Tra le tante strumentalizzazioni e ambiguità che in questi giorni hanno accompagnato le proteste del movimento No Tav colpisce soprattutto quella di chi vuol far passare la ribellione in Val di Susa come parte di una nuova coscienza civile che si sveglia in Italia, di un vento che ha iniziatoa soffiare con i referendume le amministrative.

Vento nuovo? Al di là dell’ovvia osservazione che le proteste contro la Tav hanno ormai radici decennali, ciò che queste vicende fanno riemergere è, al contrario, una delle piaghe più antiche della vita sociale, politica ed economica italiana.

Un Paese in cui ogni progetto, visione o investimento che travalichi i confini geografici e temporali del qui e adesso si scontra con un mostruoso mosaico di opposizioni particolari. Interessi e prospettive non solo incapaci di coagulare in una visione congiunta di bene comune, ma spesso foraggiati e incoraggiati dagli stessi politici che quella visione unitaria dovrebbero invece contribuire a ricomporre. Un Paese quindi perennemente imprigionato nei localismi, nel «fate quel che vi pare, ma non a casa mia», il Paese in cui tutti puntano il dito contro tutti ma nessuno è mai disposto a mettere in discussione i propri piccoli grandi interessi, dai deputati agli allevatori di mucche, dai ministri ai tassisti.

Il Paese dove i rifiuti traboccano inondando interi paesi, ma dove nessuno vuole un inceneritore, un Paese dove l’energia costa il 35 per cento più che altrove, stroncando la competitività delle imprese, ma dove è impossibile fare un piano energetico di qualsiasi tipo. Un Paese iper-cementificato, ma dove gli avversari della cementificazione gridano inorriditi all’idea di un grattacielo che da solo potrebbe sostituire centinaia di bifamiliari con giardinetto, restituendo all’ambiente chilometri di terra libera.

E tutti, tutti hanno un unico argomento: «ma in fondo c’è proprio bisogno di questa opera?». No, certo che non ce n’è bisogno. Non c’è mai un bisogno schiacciante di una cosa nuova che prima non c’era. L’Italia in fondo esisteva anche quando non c’erano autostrade, fogne, ferrovie ed elettricità. Ma è proprio questo il senso degli investimenti, il senso di una programmazione che guarda in avanti. E’ lì che sta la vera anima rivoluzionaria di un Paese e di un popolo. Non tanto nel saper affossare i governi o ghigliottinare i potenti, ma nel saper guardare al di sopra delle proprie spalle, saper intuire quello che ci può essere e contribuire tutti insieme a costruirlo, assumendosene anche i rischi. Sapersi chiedere cosa può succedere «se».

«Cosa succederebbe se ci fosse un ponte che collega la Svezia alla Danimarca?», si devono esser chiesti un giorno i governanti dei due Paesi. Lo hanno scoperto nel giro di pochi anni. Il ponte di Öresund che collega la città svedese di Malmö alla capitale danese Copenhagen fu completato in meno di 4 anni, dal 1995 al 1999, e aperto al pubblico nel 2000. Inizialmente il traffico era inferiore alle aspettative, d’altronde le abitudini di vita e di lavoro delle persone, le attività economiche, non cambiano dalla sera alla mattina. Ma, alla fine, nemmeno tanto lentamente: già nel 2007 non solo era aumentato molto l’utilizzo del ponte, ma anche la crescita delle aree interessate dall’infrastruttura. In quegli anni Malmö ha registrato un tasso di crescita della popolazione due volte superiore alla media nazionale e un raddoppio del proprio capitale umano.

Il fatto è che il rapporto tra infrastrutture e crescita è complesso: spesso le infrastrutture anticipano e guidano certi percorsi di sviluppo, e il loro effetto futuro non si può prevedere sulla base dell’utilizzo delle vecchie strutture e tecnologie. Sarebbe stato come se negli Anni Novanta l’Italia avesse deciso che era inutile portare qua Internet e l’e-mail perché il flusso di missive delle Poste italiane era un po’ in calo. Certamente l’Italia sarebbe sopravvissuta. Ma a quale prezzo? Anche se forse nel caso della Tav è una forzatura dire che senza quella tratta Torino e l’Italia saranno escluse dall’Europa: lo sono già. L’Italia non solo è fanalino di coda tra i Paesi europei per chilometri di alta velocità, ma è quella che ne ha meno in cantiere, quella che ne costruirà meno in futuro.

La Spagna ha inaugurato la prima linea veloce nel 1992 e in meno di dieci anni ha costruito circa 2700 chilometri di alta velocità, il triplo dei nostri, e ne ha in cantiere altri 1800 (contro i nostri 92). La Cina ne ha operativi più di seimila e ne sta costruendo oltre quattordicimila, investendo 309 miliardi di dollari. Per non restare troppo indietro Obama sta spingendo per massicci investimenti nell’alta velocità anche negli Stati Uniti (e proprio in questi giorni il dibattito sull’alta velocità è caldissimo anche lì). E sappiamo che la strategia complessiva dell’Unione Europea sull’alta velocità andrà comunque avanti, con o senza il passaggio dall’Italia. No, quel pezzo di alta velocità, di per sé, non cambierà probabilmente le sorti italiane, sarà uno dei tanti anelli mancanti del nostro Paese, uno dei tanti ospedali incompiuti, dei capannoni abbandonati, o una delle migliaia di piste ciclabili ammezzate che terminano nel nulla, simbolo perfetto di un Paese eternamente in partenza ma incapace di capire dove vuole arrivare.

La Stampa 05.07.11