Credo che ben pochi italiani abbiano avuto notizia dello sciopero della fame di Marco Pannella, iniziato il 20 aprile scorso, dunque 75 giorni fa. Pannella e i Radicali protestano contro la situazione inumana delle carceri italiane, un problema che si protrae ormai da anni, e ogni estate assume tratti drammatici. Nelle carceri italiane sono rinchiusi quasi 70 mila detenuti, a fronte di una capienza che non raggiunge i 45 mila posti. Molte strutture sono fatiscenti, i detenuti sono costretti a convivere in spazi angusti e sovraffollati, largamente al di sotto degli standard minimi europei (7 metri quadri a detenuto in cella singola, 4 in cella multipla), con servizi igienici e condizioni di accesso ai medesimi spesso umilianti. Il tasso di suicidio è circa 20 volte quello del resto della popolazione. Da anni e anni innumerevoli rapporti, ricerche, studi, resoconti di visitatori testimoniano quale inferno siano diventate tante carceri italiane (non tutte, per fortuna). E la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già richiamato più volte l’Italia per le condizioni dei detenuti nelle carceri.
Nonostante tutto ciò il tema non è mai, non dico al centro, ma neppure alla periferia del dibattito politico. Semplicemente non se ne parla, salvo nei rarissimi momenti in cui il governo annuncia misure di svuotamento delle carceri o fantomatici piani di edilizia carceraria (i nuovi posti promessi sono sempre tantissimi, quelli effettivamente realizzati negli ultimi anni sono poche migliaia, circa un decimo del fabbisogno).
L’inerzia dei media, per una volta, accomuna tutti indistintamente: destra, centro e sinistra; televisione, giornali, Internet. Se tacessero anche i Radicali e alcune rare, isolatissime voci di singole personalità, il silenzio sarebbe totale. Come è possibile ?
Una spiegazione è che all’opinione pubblica italiana delle condizioni di vita dei detenuti semplicemente non importi un fico secco. O, se vogliamo essere più benevoli, che il problema delle carceri – pur essendo noto a molti – sia entrato nel novero dei fatti cui la gente si è abituata al punto da considerarli ormai alla stregua di eventi naturali. I politici rubano, i fiumi esondano, le scuole sono a rischio sismico, i napoletani non fanno la raccolta differenziata. E, naturalmente, le carceri scoppiano: del resto siamo in Italia, il Paese più bello del mondo.
Non so se le cose stiano così (sospetto che sì). Ma quale che sia l’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica, a me pare che una classe dirigente che ignori il problema dell’inferno carcerario non sia all’altezza del proprio ruolo. Ci permettiamo di criticare la violazione dei diritti umani in Cina, in Russia, in Libia, in Siria. Ci scandalizziamo ogni volta che un leader occidentale visita un Paese totalitario (con cui tuttavia ci piace commerciare) e omette di fare il suo bravo discorsetto sui diritti umani. Abbiamo avuto il coraggio (o la faccia tosta?) di entrare in guerra con la Libia «per evitare una catastrofe umanitaria», con il risultato di provocare e tenere in piedi una guerra civile che è già costata migliaia di morti. Però non vediamo la catastrofe umanitaria che noi stessi apparecchiamo e tolleriamo ogni giorno nelle nostre carceri, e che è lì, davanti ai nostri occhi, solo che ci degniamo di prestarvi attenzione.
No, c’è qualcosa che non va. L’eventuale indifferenza dell’opinione pubblica non assolve la classe dirigente, e quando dico classe dirigente non parlo solo dei politici, ma della sensibilità di tutti coloro che hanno responsabilità nelle imprese, nelle banche, nei sindacati, nelle associazioni, nei media, nelle università, nelle professioni.
Si possono avere i dubbi e le riserve più radicali sulle proposte di Pannella, e io stesso non condivido almeno la metà delle cose che dice e pensa, a partire dall’idea che la soluzione del problema del sovraffollamento carcerario sia una grande amnistia. Però non si può ignorare il problema che Pannella solleva, perché quella delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane è una questione di civiltà. Una questione che si può affrontare lungo linee libertarie (depenalizzazioni, indulti, amnistie, misure alternative al carcere), oppure lungo linee sicuritarie (ammodernamento delle carceri esistenti, costruzione di nuove carceri), o ancora con una miscela dei due approcci. E che tuttavia un Paese occidentale non può permettersi di rimuovere, o di vivere come qualcosa che non tocca la sua identità, la sua morale, la sua coscienza collettiva.
Si parla tanto di modernizzazione dell’Italia, della necessità di riforme che ci consentano di tornare a crescere. E tuttavia in questo gran parlare di riforme, cui io stesso non di rado prendo parte con i miei studi, forse si sta lasciando un po’ troppo in ombra un aspetto, e cioè che modernizzazione non significa solo modernizzazione economica, e che in Italia esiste anche un drammatico problema di modernizzazione civile. Un problema che ovviamente chiama in causa i comportamenti di ognuno, ma che è prima di tutto un problema di civiltà giuridica nei rapporti fra lo Stato e i singoli cittadini.
Oggi in Italia, di fronte allo Stato e ai suoi apparati, troppe volte il singolo cittadino è inerme, sottoposto a ogni tipo di vessazione, arbitrio, ricatto, abuso, negligenza, sordità. Sotto questo profilo, a 150 anni dall’Unità d’Italia siamo ancora sudditi, e non cittadini. E lo siamo ovunque, sia quando siamo ancora liberi e ci troviamo di fronte ad apparati che violano le regole e abusano del loro potere, sia quando incappiamo nelle maglie della giustizia e, fin dalla condizione di detenuti in attesa di giudizio, sperimentiamo l’inferno delle carceri italiane.
Perciò, non auto-inganniamoci. Lo sciopero della fame di Marco Pannella sembra parlare solo dei detenuti, ma parla anche di noi.
La Stampa 03.07.11