Alzi la mano chi, nelle ultime settimane, non ha pensato, ascoltato, confessato: «Fatico a leggere i giornali, mi deprimono» . Sentimento comprensibile, ma pericoloso. Comprensibile perché lo stillicidio di cattive notizie mette a dura prova i nervi e la pazienza. Pericoloso perché i protagonisti di quelle brutte storie proprio questo vogliono: che non scriviamo, che non leggiamo, che non pensiamo più a loro. Il marchio delle democrazie è l’imperfezione inquieta; il segno delle autocrazie è l’ignoranza soddisfatta. Esiste un grande rischio per i buoni, e una grande opportunità per i meno buoni: le cattive notizie irritano, la tentazione di rimuoverle è forte. Sulla società occidentale — non solo quella italiana — potremmo appendere il cartello che vediamo sulle maniglie delle stanze d’albergo: «Do not disturb» , non disturbare. Le cameriere al piano devono obbedire; i cittadini di una democrazia, no. L’Italia, da qualche tempo, sembra una repubblica fondata sul lavorìo. Illegale. Da Napoli a Roma, da Parma a Palermo, da Genova a Milano: i moderni trafficanti non si fermano davanti alla possibilità di guadagno e di carriera. La nostra società sembra aver prodotto una nuova specie di piraña civili, pronti a divorare tutto quello che intravedono. Sociologi e politologi si sbizzarriscano sulle cause; gli educatori si preoccupino dei cattivi esempi. Noi giornalisti abbiamo un compito: tenere accesa la luce su ambienti e personaggi che non la amano. Perché è nel buio che campano. Di solito, alle nostre spalle. Non tutti sono d’accordo. Mi ha scritto un sacerdote — un sacerdote!— secondo cui è inutile illudersi: la realtà va accettata. «Nelle democrazie moderne i cittadini imparano a scegliere leader che fanno sia i propri sporchi comodi, sia il bene del Paese secondo la propria personale e limitata (ma sacrosanta) visione» . Gli rispondo con le parole di un suo — non un mio— collega. Il cardinale Carlo Maria Martini, nelle risposte ai lettori, ha scritto domenica sul Corriere: «La coscienza è un “muscolo”che va allenato e, come per l’atleta, l’esercizio richiede una certa disciplina» . Moralismo? No, senso morale. E buon senso. Nessuna trasformazione è possibile, nessuna Italia nuova è pensabile se non sentiremo certi comportamenti come gravi, colpevoli e pericolosi. Il cinismo— si sa— è di gran moda. Ma spesso è solo il soprabito per nascondere le nostre pigrizie. O, peggio, le nostre complicità. Tocca ai magistrati, ovviamente, stabilire se dietro certe conversazioni (Napoli), certe dimissioni (Parma) e certe facilitazioni (Roma) ci sia un reato. Tocca al Parlamento — non ai giornali — decidere quali e quante intercettazioni si possano pubblicare. Ma non cadiamo nella rete astuta dei formalisti, secondo cui è più importante la cornice del ritratto. E il ritratto che vediamo è agghiacciante. Un Paese pronto a giustificare l’ingiustificabile, a paragonare l’imparagonabile, a perdonare l’imperdonabile, se fa comodo alla propria fazione. Venerdì e sabato, a Venezia e a Pavia, avrò occasione di parlare ai neo-laureati. So che dimenticheranno presto le esortazioni da cui un adulto non può esimersi, in certe occasioni. Ma rivolgerò loro un invito; e vorrei lo ricordassero, almeno quello. Non diventate mai cinici, ragazzi. I protagonisti delle tristezze italiane di oggi, trent’anni fa, erano come voi: prendevano la laurea, annusavano il futuro, avevano la luce negli occhi e un’estate infinita davanti. Allora volevano cambiare il mondo; oggi, l’automobile. Meglio se blu, lussuosa e di servizio: così gliela paghiamo noi.
Il Corriere della Sera 29.06.11