Credo di essere stato io, all’inizio degli anni Novanta, a coniare per me stesso l’epiteto di «liberista per disperazione» . Riflettevo allora sul contrasto tra l’industria pubblica francese— ben gestita, capace di progetti lungimiranti, poco inquinata dalla politica spicciola — e l’industria pubblica italiana, diventata il contrario di quella francese dopo la fase gloriosa degli anni Cinquanta e Sessanta. E mi chiedevo: se fossi francese, approverei forse un programma di privatizzazione con la stessa sicurezza con la quale, come italiano, approvavo il programma che il mio governo si predisponeva ad attuare? Certo, allora bisognava vendere e far cassa: ma non c’era anche disperazione, sfiducia nella possibilità di migliorare lo stato disastroso dell’industria pubblica? Esistono princìpi abbastanza solidi — e sottolineo «abbastanza» perché non ci sono certezze scientifiche in questa materia — per decidere quali attività è opportuno lasciare a imprese private e al mercato e quali invece riservare a una gestione pubblica: che fosse un’industria pubblica a fare panettoni, come allora avveniva, non aveva senso alcuno, né per un liberista, né per uno statalista. Questi princìpi si fanno meno solidi — e sono oggetto di legittimo dissenso politico— quando si passa da attività commerciali e industriali, che possono essere gestite da privati in condizioni di concorrenza, a servizi che presentano l’uno o l’altro dei due caratteri seguenti. Servizi collettivi che devono essere forniti in condizioni di monopolio, come tipicamente avviene per molti servizi a rete (alcuni tipi di trasporto urbano e interurbano, servizi idrici, smaltimento rifiuti…). O servizi che soddisfano bisogni i quali, in gran parte dei Paesi civili, sono assurti al rango di diritti: il diritto a cure mediche, il diritto all’istruzione. Le cose sono molto più complicate di così e devo rinviare a un buon manuale di Economia pubblica per una trattazione adeguata, ma già questa elementare dicotomia consente di comprendere la natura del problema. Si tratta di un problema che— in astratto ed estremizzando— si presta a due soluzioni. O ad una soluzione interamente pubblica, in cui lo Stato o l’ente locale gestisce il servizio tramite un’azienda di cui è proprietario. O ad una soluzione in cui il servizio è gestito da un soggetto privato, ma sotto una stretta supervisione pubblica. Una supervisione che inizia con la scelta mediante gara del soggetto cui affidare il servizio e prosegue con un controllo volto a garantire che il vincitore ottemperi agli impegni che ha assunto: in questo secondo caso va da sé che il privato ottenga una remunerazione «adeguata» sui capitali investiti, capitali che spesso al pubblico fanno difetto. Scendendo dall’astratto al concreto, ed in particolare al nostro Paese, si vedono subito i pericoli che entrambe le soluzioni presentano. Nel primo caso essi risiedono nella difficoltà di mettere al riparo l’azienda pubblica dagli effetti inquinanti della politica— ex politici come dirigenti, assunzioni pilotate, collusioni col sindacato… — e costringerla ad una devozione esclusiva ed efficiente alle finalità del servizio stesso: le storie di ordinario orrore sono purtroppo numerose. Nel secondo caso i pericoli risiedono in gare mal fatte, in protocolli di impegni mal disegnati, in controlli compiacenti, e quindi in inefficienza e/o profitti eccessivi: anche qui la politica, gli scambi occulti tra i politici e il gestore privato prescelto, giocano un ruolo distorsivo e storie di orrore certamente non mancano. Insomma, la scelta avviene in una zona grigia in cui occorre ponderare vantaggi e svantaggi, «fallimenti» del mercato contro fallimenti dello Stato, e nel farla sono di scarso aiuto le posizioni ideologiche estreme dei liberisti e degli statalisti per… religione. Per natura sua e circostanze politiche contingenti— si tratta pur sempre di un voto pro o contro il governo — un referendum abrogativo eccita posizioni estreme e così è avvenuto anche per i recenti referendum sull’acqua e sul nucleare: lasciamo da parte quest’ultimo, ma sui primi è indubbio, come notava Mucchetti («Le paure italiane della “dittatura”di mercato» , sul Corriere del 20 giugno scorso), che ha prevalso una posizione ideologica anti-mercato. Come «liberista per disperazione» , come fautore del privato per sfiducia nella capacità degli enti locali di organizzare servizi pubblici non inquinati dalla politica, sarei contento se questo pronunciamento referendario fosse preso sul serio e inducesse i politici di questo governo e dei prossimi a trovare rimedi efficaci contro l’inefficienza di tanti servizi locali gestiti direttamente. In astratto non c’è nulla che impedisca una gestione pubblica più efficiente di quella attuale, e comunque non meno efficiente di una gestione tramite privati, anche se rimarrebbe sempre il grosso problema del reperimento dei capitali necessari. Se così avvenisse in concreto, il mio «liberismo per disperazione» si attenuerebbe fino a scomparire. Me lo auguro, ma dubito che ciò avvenga.
MICHELE SALVATI dal Corriere della Sera del 25 Giugno 2011