Con una raffica di interviste contemporanee, stile Berlusconi, ai maggiori giornali, Antonio Di Pietro ieri ha cercato di svelare il rebus sul nuovo Di Pietro su cui si arrovellano da giorni i suoi alleati e avversari. Dire che ci sia pienamente riuscito forse è troppo, perché, si sa, il leader di Italia dei Valori comunica più col corpo e la sua inconfondibile mimica che non con le sue stesse parole. Ma adesso si capiscono almeno le ragioni dell’inquietudine che lo ha portato, a sorpresa, il 13 giugno a non proclamarsi vincitore dei referendum, pur voluti da lui, lasciandone il merito ai cittadini che si erano recati alle urne e criticando apertamente per la conversione tardiva al rito della democrazia diretta Bersani, che al momento della raccolta delle firme lo aveva accusato di fare un favore a Berlusconi. La polemica tra i due leader è poi continuata nell’aula della Camera il giorno della verifica, quando Di Pietro ha di nuovo attaccato il leader del Pd e accettato un pubblico ed estemporaneo colloquio tra i banchi dei deputati con Berlusconi. Un Berlusconi che dopo anni di scontri frontali, Di Pietro imprevedibilmente ora non attacca più. Questa serie di gesti inattesi – in uno scenario animato dall’attesa esasperante della fine della stagione del Cavaliere, che al contrario continua a dominare – ha motivato le ipotesi più disparate sulle mosse dipietriste. S’ è detto che Di Pietro, sentendo aria di elezioni, pensava a riposizionarsi.
S’è parlato apertamente di un suo patto con il Cavaliere. S’è immaginata ogni possibile sua nuova collocazione, al centro del centrosinistra, al centro del centrodestra o al centro e basta, anche se l’ex pm di Mani Pulite continua a professarsi bipolarista. S’è ragionato su certi malinconici accenni al passato familiare. Come quelli al padre contadino, iscritto alla vecchia Coldiretti e «d’ufficio» alla Dc. O alla propria fede cattolica, all’educazione in seminario, agli anni in cui faceva il poliziotto, prima ancora di diventare magistrato. Da questo a dire che il leader di Italia dei Valori si prepara a ribattezzarsi democristiano, l’ennesimo in un panorama un po’ affollato, tuttavia ce ne corre. Seppure è chiaro che tra le ragioni che lo hanno spinto alla metamorfosi c’è una sorta di gelosia politica per Casini, il potenziale, corteggiato, e finora mancato, alleato con cui Bersani pensa di avere la vittoria in tasca. Per capire davvero cosa ha in testa Di Pietro forse bisogna allontanarsi dalle categorie classiche della politica, tipo geografia delle alleanze e chimica delle coalizioni e dei partiti. E riflettere sul fatto che Tonino è una sorta di sensitivo, nato in una terra dove forti sono ancora i culti irrazionali della magia e del destino. Non a caso, pur essendo ormai da quasi vent’anni uno dei protagonisti del teatrino della Seconda Repubblica, Di Pietro recita ancora la parte del personaggio provvisorio, sempre a disagio tra le maschere del potere, felice solo quando può tornare al suo amato trattore e alla terra da arare. Bene: poiché anche in questa sceneggiata c’è del vero, o del verosimile, si può intuire che Di Pietro sia rimasto colpito, di recente, da due avvenimenti che lo hanno toccato da vicino: il successo, superiore a qualsiasi previsione, di De Magistris a Napoli. E la vittoria dei referendum, ottenuta anche grazie a dieci milioni di elettori del centrodestra disobbedienti alla direttiva berlusconiana di disertare i seggi, che sono andati a votare umiliando il partito astensionista e costruendo il quorum inattaccabile di ben ventisette milioni di voti. E’ chiaramente in quest’ambito che il leader di Italia dei Valori intende muoversi: convinto che la frana nel campo berlusconiano sia solo all’inizio e possa contagiare, tutto o in parte, anche quello del centrosinistra, all’interno del quale il voto cosiddetto di protesta ha eletto Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli. Di Pietro sta rimuginando su un’alternativa che non sia di destra, né di sinistra, né di centro, ma cerchi piuttosto di pescare in più campi, partendo naturalmente da quello martoriato del Cavaliere. A modo suo, ha metabolizzato così, nel bene e nel male, la lezione di Segni e dei referendum del 1991 e ’93.
Dopo quella grande prova di democrazia, infatti, nel ’94, l’idea che dalla crisi della Prima Repubblica e dei partiti che l’avevano governata per quarant’anni si sarebbe usciti a sinistra si rivelò una fatale illusione, che aprì la strada a Berlusconi e alla destra. Vent’anni dopo ripetere quello stesso errore, nutrirsi dello stesso miraggio, scambiando il declino del berlusconismo per la crisi dell’opinione pubblica moderata e di centrodestra, è qualcosa che, prima ancora che accada, al sensitivo Di Pietro fa ribollire il sangue e drizzare i peli sulla pelle. Verrebbe da aggiungere: non a torto.
da www.lastampa.it