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I ragazzi: “Che sfortuna essere nati in Italia”, di Francesca Paci

Quattro giovani su 10 sognano di trasferirsi subito all’estero Sotto accusa lo scarso senso civico, la corruzione e la crisi economica
I PAESI. Quelli più ambiti sono la Francia e gli Stati Uniti
LE CAUSE. Poche opportunità di studio e lavoro e strutture inadeguate.
54,2 per cento. E’ il tasso di italiani occupati tra i 25 e i 29 anni
86,7 per cento. E’ il tasso di tedeschi occupati tra i 25 e i 29 anni
85,4 per cento. E’ il tasso di francesi occupati tra i 25 e i 29 anni

Ci risiamo, l’Italia non è decisamente un paese per giovani. Neppure due illustri connazionali che espugnano la prestigiosa top ten della rivista Popular Science, l’Olimpo degli scienziati under 40 più promettenti d’America, riescono a farci recuperare terreno sull’orizzonte allontanatosi da almeno un ventennio. Sì, perché mentre la fisica anconetana Chiara Daraio e l’ingegner Maurizio Porfiri tengono alto il tricolore negli Stati Uniti, il 40 per cento dei loro ex compagni di studi considera la propria permanenza in Italia una vera e propria sfortuna e il 40,6 per cento si trasferirebbe seduta stante altrove, dal Nuovo Mondo (16,1) alla Francia (16,5), dall’Inghilterra (11,9) alla Germania (10,1). I dati, contenuti nel VI Rapporto della Fondazione Migrantes, sono lo specchio di un deserto senza fine in cui, sorprendentemente, poco meno di un intervistato su sei si accontenterebbe perfino della Spagna «indignada» con il suo 21 per cento di disoccupazione: tutto tranne convivere con lo spettro della precarietà che angoscia il 43,5 per cento degli under 24 e il 33,6 per cento dei fratelli maggiori ma ancora entro il critico 34esimo anno d’età.
«Alcuni spazi giovanili importanti come l’università soffrono in Italia di una carenza di opportunità e strutture che rende problematica la formazione e ridimensiona l’aspetto altrimenti arricchente della circolazione delle persone», osserva monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes. Il punto, sembra, non è tanto il posto fisso, ghiotta eredità del boom economico di cui i nati dopo il 1975 hanno solo sentito vagheggiare nostalgicamente. I nostri laureati, i ragazzi alla pari e i logati Erasmus, i volenterosi trentenni disposti a reinventarsi un mestiere a migliaia di chilometri da casa, i cervelli ma anche le braccia in fuga non emigrano per seguir virtude e conoscenza ma perché hanno perso la speranza. Questo almeno registrano gli studi di settore, da Migrantes all’Istat a Eurispes, secondo cui uno su cinque di loro non studia né lavora e l’inattività femminile è pari al 49 per cento. Sono la cosiddetta «generazione invisibile», motori potenti che però non sono ancora stati accesi.
Il risultato è che la diaspora, temporanea o permanente, cresce a dismisura. A memoria d’anagrafe 4.115.235 italiani vivono al momento all’estero, oltre 90 mila in più del 2010. Rispetto all’anno precedente fanno le valigie con maggior decisione le donne (47,8 per cento), i giovani (gli over 65 sono scesi dal 19,2 al 18,6) e i minori (passati dal 15,4 al 16, ma erano 15,4 nel 2010). I liceali in particolare sembrano sempre più attratti dalla prospettiva di anticipare lo stage universitario e al quarto anno approfittano volentieri di progetti come Intercultura, Wep o Comenius.
«I paesi anglosassoni mantengono una grande attrattiva specialmente per il tirocinio di lavoro ma la vera novità è la Spagna dove negli ultimi 5 anni l’incremento degli italiani registrati all’Aire, l’albo dei residenti all’estero, è stato del 56 per cento», nota Delfina Licata, curatrice del rapporto. Chiunque abbia visitato Barcellona e Madrid non può che confermare l’impressione di sentirsi praticamente a casa.
Chi porta avanti allora, negli atenei e nelle officine, il paese che si sta abituando ad accompagnare all’aeroporto i suoi figli, la società gambero ripiegata su se stessa? Monsignor Perego sostiene che esista comunque uno scambio costruttivo. Se in dieci anni il numero degli italiani emigrati per motivi di studio è passato da 13.236 a 17.754 anche quello degli stranieri in viaggio in senso inverso è cresciuto da 8.739 a 15.530. Certo, restiamo un paese meno appetibile di altri di cui è difficile nascondere che gli imprenditori under 34 sono appena il 12,6 per cento del totale, il 41,5 degli under 35 abita ancora con i genitori e almeno 70 mila vincitori di concorsi pubblici non sono mai stati assunti. Difficile pubblicizzare oltreconfine il brand del Belpaese se oltre alla precarietà lavorativa i giovani italiani scontenti di vivere nel proprio paese menzionano tra gli handicap la mancanza di senso civico (20,6 per cento), l’eccessiva corruzione (19,1), la classe politica (15,2), la condizione economica (8,6), il tasso di criminalità (3,9), lo stato del welfare (1,3). Eppure nei campus americani dove eccellono scienziati del calibro di Chiara Daraio e Maurizio Porfiri il genio italico resiste e sono probabilmente proprio i cervelli fuggiti, più o meno felicemente, a far brillare di luce riflessa il paese nel quale si sono formati.
«E’ chiaro che gli italiani avvertono maggiormente l’incertezza per il futuro e la staticità laddove magari all’estero si spostano facilmente con tanto di lavoro dalla Germania alla Svizzera alla Gran Bretagna», ammette Delfina Licata. Ma la fine di una speranza può anche significare l’inizio di un’altra: «L’idea di movimento è cambiata e gli italiani non fanno eccezione, il paese dovrebbe rendersi più appetibile». In attesa non c’è solo la generazione invisibile, ma c’è quella ben illuminata dai riflettori stranieri che magari, in un’Italia all’arrembaggio dell’orizzonte, potrebbe un giorno tornare indietro.

La Stampa 22.06.11

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“Costretti a giocare in difesa”, di Irene Tinagli

Non si vive di sola pizza e sole. Né di sola mamma. Famiglia e qualità della vita, a lungo considerati gli elementi caratterizzanti della nostra società, non sono più sufficienti a rendere felici i nostri giovani.

L’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes ci dice che il 40% degli italiani tra i 25 e i 34 anni considera una sfortuna vivere in Italia, e il 51% si trasferirebbe volentieri all’estero. Quando oltre la metà della popolazione di una Paese nella fascia d’età più attiva e produttiva sogna di scappare altrove, c’è qualcosa che non va. E dovrebbe scattare più di un campanello di allarme.
Certamente la crisi economica e le difficoltà occupazionali giocano un ruolo importante nell’alimentare questo malcontento. Tuttavia non è solo una questione legata all’occupazione. D’altronde la crisi economica ha colpito tutti gli altri Paesi industrializzati, anche quelli che gli italiani indicano come mete privilegiate per una loro eventuale emigrazione (Francia, Stati Uniti e Spagna, quest’ultima con un tasso di disoccupazione doppio del nostro). Non solo: le aree del nostro Paese in cui questo desiderio di fuga è più alto sono tra quelle in cui l’incidenza della disoccupazione è più bassa (Centro e Nord). Appare quindi evidente che, oltre alle difficoltà economiche, in Italia cominciano a scricchiolare anche altre dimensioni, e che per le nuove generazioni non basta la vicinanza alla famiglia né il nostro bel territorio a sentirsi fortunati di stare in Italia.
Per chi l’Italia l’ha già abbandonata da anni o per chi è abituato a misurarsi con contesti stranieri, come fanno ormai quotidianamente milioni di italiani tra i venti e i quaranta anni, questi dati non rappresentano una gran sorpresa. Innanzitutto perché sanno che la qualità della vita non è una nostra esclusiva. In fondo il sole c’è anche in Costa Azzurra o in Costa Brava, e la pizza o il formaggio buono si trovano anche altrove, anche quando invece di chiamarsi Parmigiano si chiama manchego o camembert. Ma, soprattutto, perché sanno che la qualità della vita non è fatta solo di buon mangiare e visite familiari, per quanto importanti. La vita, quella vera, è fatta anche di ambizioni, di sogni, di opportunità di crescita, di cambiamento. È fatta di persone e mondi diversi da noi con cui abbiamo necessità e voglia di misurarci, soprattutto a una certa età. E’ fatta insomma di tutte quelle cose a cui l’Italia ha sistematicamente chiuso le porte ormai da troppi anni. Negli ultimi vent’anni l’Italia si è mostrata terribilmente aggrappata all’esistente, terrorizzata da tutto quello che accadeva fuori, costantemente tesa a tentare di proteggersi da tutti gli attacchi dei «nemici» come si fa nei videogame, seguendo una metafora cara al nostro ministro dell’Economia. Un’Italia che prima era spaventata dalle tecnologie e dalla concorrenza degli altri Paesi industrializzati come Germania o Stati Uniti, poi dalla manifattura a basso costo dei Paesi emergenti come Cina e India, e oggi semplicemente dalla fame e dalla disperazione dei Paesi africani come la Libia, la Tunisia o la Somalia, i cui profughi potrebbero rubarci anche i posti da raccoglitori di pomodori. Un’Italia abituata ormai a giocare in difesa, e che nonostante le sfide sempre più difficili non cambia mai squadra, ma ricicla continuamente i soliti giocatori. Basta pensare alle tensioni e agli accordi tra Bossi e Berlusconi di questi giorni, per avere la sensazione di rivivere un film già visto molti, troppi anni fa. Un arco temporale di 15 o 20 anni può sembrare un’inezia a chi calca la scena politica da 30 o 40 anni, ma rappresenta l’unico orizzonte temporale di cui hanno memoria gli italiani che oggi hanno 25 anni. E per questi giovani l’Italia è il Paese in cui non cambia mai nulla e si parla sempre delle stesse cose (senza farle): dal ponte sullo Stretto alla Salerno-Reggio Calabria, dalla riforma fiscale a quella dello Stato. Il Paese in cui, per riprendere la metafora dei videogame amata da Tremonti, i politici giocano ancora al Pac-man, mentre il resto del mondo funziona con la Wii. E’ guardando a questa Italia che si capiscono le ragioni di quei giovani che se ne vorrebbero andare. Sanno bene che altrove troveranno la stessa crisi, ma sperano almeno di poter respirare un po’ di aria diversa, di veder muoversi qualcosa, di potersi misurare con un mondo che gira invece di stare fermo. Chiaramente non tutta l’Italia è così asfittica, ci sono realtà che pur con fatica provano a muoversi suscitando anche begli entusiasmi. Ma la sensazione che ancora prevale è di un immobilismo che sta facendo la muffa. Gli unici a non sentirne la puzza sono quelli che ci sono seduti sopra.

La Stampa 22.06.11