Si chiamano “madri segrete”. Arrivano dalle pieghe di un´Italia profonda, emarginata, sommersa, dove vecchie e nuove povertà si fondono. Sono clandestine, immigrate, senza patria, ma anche italiane, giovanissime, a volte poco più che bambine. Donne, ragazze, adolescenti cresciute in fretta, sole, spaventate, violate.
Ogni anno di più: partoriscono ma poi il loro bambino non lo riconoscono e lo lasciano in ospedale, affidato alle mani sicure di medici e infermiere. Sono la spia di un´emergenza infanzia nascosta e drammatica: sono infatti oltre 400 l´anno i piccoli che non vengono riconosciuti alla nascita, un tempo si chiamavano “nati indesiderati”, ma il loro numero cresce, nel 2010 soltanto a Roma i casi sono stati 60, il 20% in più dell´anno prima, bambini destinati a veloci adozioni nazionali, soprattutto però se sani e senza difetti, altrimenti la strada si fa più difficile, per i minori con handicap spesso l´unico futuro è l´istituto. Le mamme hanno 3 mesi di tempo per ripensarci, poi basta, per loro quel figlio sarà missing, scomparso, accolto ormai dentro le vite degli altri. Nessuno può né deve chiedere loro nulla, la legge è chiara, sono “parti anonimi”, il bambino resta, la madre biologica scompare.
Firmano e se ne vanno le madri segrete, ombre nei reparti di maternità, dove tutto il resto è invece attesa, gioia. Se ne vanno, curve su se stesse, sole come sono arrivate, con il corpo ancora sconvolto da quella nascita e da quella perdita. Mascia, Alina, Alice, Heiriti, Caterina, Magdalena, Ylenia, Deborah, Sabrina: alcune chiedono di vedere il bambino, altre no, è troppo dura, se lo tieni in braccio poi forse non ti staccherai più… Dietro quella decisione estrema ci sono uomini violenti, religioni intolleranti, famiglie che si vergognano di figlie incinte per sbaglio, prostituzione, clandestinità, la paura di essere espulse, violenze sessuali, non avere né terra né patria e nessuna informazione sull´aborto legale. «Un mese fa ho ricevuto una lettera in una busta chiusa. Era indirizzata ad un neonato ancora senza nome e senza identità. L´aveva lasciata sua madre quella busta, dopo averlo partorito e affidato all´ospedale. Adesso la busta la custodiremo noi, sigillata nel fascicolo di quel bambino che presto sarà dato in adozione… «. Racconta così Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, un recentissimo caso di parto anonimo, e le sue parole evocano un´Italia arcaica e disperata, un mondo che si pensava scomparso di figli abbandonati, di maternità non volute, di bambine-ragazze sconvolte da gravidanze premature, e di neonati “ignoti” consegnati allo Stato come un tempo venivano affidati alle ruote degli esposti.
Ma come è possibile che nell´Italia dei bambini amati e voluti, delle dramma delle culle vuote, del boom delle adozioni internazionali ci siano ancora sacche di povertà così assolute? E perché queste donne non vengono aiutate prima? La verità è che in Italia c´è una emergenza infanzia sommersa e taciuta. Non solo minori abbandonati, ma anche malnutriti, senza vestiti, senza latte, senza pannolini, senza medicine, come denunciano ormai da anni le associazioni di aiuto per le neo-mamme come «Salvabebè», la Caritas, i Movimenti per la Vita, la Comunità di Sant´Egidio, tra i pochi ad occuparsi della sopravvivenza delle donne in gravidanza, e poi dei primi mesi di vita dei loro neonati. Sono due milioni i bambini poveri nel nostro paese, dice l´Istat, a rischio di fame e malattie, e di questi 700mila hanno tra 0 e 3 anni. Un´emergenza tale che nel giro 15 anni le antiche ruote degli esposti, “rinate” a metà degli anni Novanta sotto forma di modernissime culle termiche collegate ai sensori dei Pronto Soccorso, sono triplicate accanto ai grandi poli ospedalieri e ai centri maternità.
IL DIRITTO ALL´ANONIMATO
Da secoli è possibile per le donne partorire e mantenere nascosta la propria identità. Erano 40mila ogni anno i neonati che nell´Italia di fine Ottocento venivano fatti scivolare nella notte dentro la ruota degli esposti da madri povere e disgraziate, ma anche da donne ricche rimaste incinte fuori dal matrimonio. Migliaia e migliaia di senza famiglia affollavano l´Annunziata di Napoli, l´Istituto degli Innocenti di Firenze, il Santo Spirito di Roma. Oggi sono poche centinaia. Ma il diritto all´anonimato, ribadito nel 1975 proprio con la riforma del diritto di famiglia, è stato rafforzato ancora dal Dpr 396 del 2000, che protegge “l´eventuale volontà della madre di non essere nominata” e sancisce il divieto di fare ricerche sulla paternità.
Il 70% delle madri segrete è composta da donne immigrate («quante badanti messe incinte dai datori di lavoro e poi cacciate», racconta Grazia Passeri, presidente di Salvabebè), il 30% da ragazze italiane, giovanissime, spesso cresciute in aree degradate, marginali, dove una gravidanza precoce (e senza marito) è tutt´oggi una ferita all´onore del clan. Molte, l´82%, restano incinte per la prima volta, al Nord come al Sud, ma la maggioranza di parti anonimi (48,7%) avviene nel Centro Nord, laddove gli ospedali sono grandi, la legge è un po´ più conosciuta, ed è più facile nascondersi tra la folla. «Avere una stima ufficiale dei parti segreti non è facile proprio per la tutela dell´anonimato. L´unica traccia sono le schede di dimissione ospedaliera – spiega Enrico Moretti, dell´Istituto degli Innocenti di Firenze – dove si registra che in quel giorno e a quell´ora c´è stato un parto e che la madre non ha riconosciuto il figlio. Ma non sempre le regioni comunicano i dati, non esiste un´anagrafe degli abbandoni, possiamo dire però con approssimazione che i casi sono circa 350/400 l´anno, in gran parte figli di donne straniere. Questi bambini entrano a far parte delle liste dell´adozione nazionale e in pochi mesi trovano una nuova famiglia: sono infatti 1200 ogni anno i minori dichiarati in stato di abbandono, ma le coppie in attesa sono oltre 7000…”
I MEDICI RACCONTANO
E la conferma di un fenomeno in crescita arriva proprio dai medici. Il Policlinico Casilino è una grande area ospedaliera che si affaccia verso le nuove aree satellite della città, tra la periferia inurbata e quella più estrema. Proprio qui, al Policlinico Casilino, nel 2006 fu installata una delle “culle protette” contro l´abbandono e l´infanticidio dei neonati. «I casi di figli non riconosciuti aumentano di anno in anno – conferma Piermichele Paolillo, direttore del reparto di Neonatologia – e il record è proprio nella nostra struttura, 60 bambini “ignoti” nel 2010 contro i 40-45 degli anni passati. Sono soprattutto figli di immigrate, in questo momento abbiamo due gemelline, nate premature ma in buona salute. Purtroppo i piccoli lasciati in ospedale, e quindi al sicuro, sono soltanto la punta dell´iceberg di una tragedia più vasta: sono decine i bambini partoriti in segreto e abbandonati chissà dove, di cui non sapremo mai nulla… «. «A Napoli in questo momento abbiamo due bambini, uno è sano, l´altro ha dei problemi – aggiunge Roberto Paludetto, primario del reparto di Neonatologia al Policlinico Federico II – ma i numeri sono in rialzo. E nei nostri ospedali le mamme anonime non sono immigrate ma italiane e giovanissime». Appunto. Chi sono, dove vivono queste donne così disperate da abbandonare il loro bambino in ospedale quando va bene, in un cassonetto o tra i canneti di un fiume quando va male? Non hanno famiglia, amici, compagni?
STORIE DI MAMME SEGRETE
Marina Secchi fa l´assistente sociale tra i centri di volontariato che raccolgono il bacino depresso delle aree romane di Tor Bella Monaca, Torre Angela, Lunghezza. Zone ad alto tasso di dispersione scolastica, delinquenza giovanile, campi nomadi, slum metropolitani, e sempre di più gravidanze adolescenziali. Ha i capelli bianchi e lo sguardo sereno: ascoltarla è come affacciarsi su un mondo di vite a perdere, tra le ultime delle ultime. « Ricordo Magdalena, moldava: il figlio della sua badante l´aveva messa incinta e poi abbandonata. Lei aveva un marito e altri figli a Chisinau, non sapeva che fare… Ricordo Mina, aveva 16 anni, tossicodipendente e ammalata di Aids: la sua bambina è nata in crisi di astinenza e sieropositiva, ma in pochi mesi si è negativizzata ed è stata subito adottata. Credo purtroppo – dice Marina Secchi – che Mina sia morta. Ricordo Alice, 17 anni, abitava a Tor Bella Monaca, noi dei servizi la conoscevamo bene: aveva superato i termini per l´aborto, ma forse con quel figlio avrebbe trovato radici… E poi Zaira, colf egiziana: non so come avesse fatto a nascondere la gravidanza ai suoi datori di lavoro, che forse l´avrebbero anche aiutata: ha avuto un bambino prematuro e cerebroleso. Non ha voluto vederlo…Ma Davide, così l´avevamo chiamato noi, è stato miracolosamente adottato, dopo essere rimasto per otto mesi in ospedale. In più di vent´anni di lavoro ho incontrato almeno una ventina di donne che hanno fatto questa scelta e la metà erano minorenni. La legge è chiara: bisogna rispettare la decisione, ma anche far sapere loro che potrebbero andare in casa famiglia, e che soprattutto possono ripensarci…».
Però ci vuole delicatezza, e non sempre avviene, spiega ancora Marina Secchi. «Ho visto donne trattate male dalle infermiere, dalle altre gestanti, ma soprattutto lasciate nella stessa stanza con le partorienti “normali”. Pensate che crudeltà far entrare in contatto madri con destini così diversi». Storie attuali eppure drammaticamente arcaiche. Come quella di I. che forse si chiama Irina, messa incinta dal suo protettore. «Aveva promesso di sposarmi, per questo non ho abortito e ho lasciato che la gravidanza avanzasse. Quando ormai era troppo tardi – Irina parla con il viso schermato in un filmato raccolto dall´assistente sociale – ho capito che voleva solo il bambino, per farne qualcosa di brutto…Un´amica mi ha aiutata a scappare, sono stata in una casa del Comune fino al parto. Ma la bambina l´ho lasciata lì, in ospedale. So soltanto che era bionda e con gli occhi blu. Ma tutti i neonati hanno gli occhi blu, vero?».
«In realtà – spiega la ginecologa Alessandra Kustermann, primario alla clinica Mangiagalli di Milano – non è facile entrare in contatto con le donne che fanno questa scelta: spesso arrivano tardi rispetto ai tempi dell´aborto, o durante i mesi della gestazione si accorgono di non potercela fare. Oppure, ed è frequente, i piccoli hanno malformazioni gravi, danni cerebrali. Ho però conosciuto una ragazza rimasta incinta dopo una violenza sessuale – racconta Alessandra Kustermann – molto cattolica e lucida che decise consapevolmente di far nascere e poi dare in adozione suo figlio, pur potendolo mantenere. Era una ragazza forte ed equilibrata, ma ricordo il suo dolore. L´abbandono è sempre vissuto come una violenza, come un´ingiustizia, credo che molte portino dentro di sé per tutta la vita il fantasma di quel figlio». «Conosco la disperazione di queste donne e ne ho viste alcune tornare indietro a cercare il figlio che avevano lasciato – aggiunge Melita Cavallo – ma quasi sempre sono ripensamenti tardivi. C´è stato un caso però in cui di fronte all´autentico dolore di una madre, abbiamo mutato un´adozione legittimante in un´adozione speciale, in modo che pur saltuariamente quella donna potesse ogni tanto rivedere il suo bambino».
Una legge imperfetta
Maria Grazia Passeri nel 1992 ha fondato l´associazione “Salvabebè, salvamamme”, organizzazione di puro volontariato che sostiene le donne durante la gravidanza e nei primi anni di vita del bambino. Latte, pannolini, vestiti, assistenza medica, legale, psicologica. «Oggi nei nostri centri forniamo corredi e aiuti alimentari per cinquemila mamme e ottomila neonati, il 20% sono italiani, ma l´emergenza cresce e i fondi sono sempre più scarsi. La legge sul parto anonimo è una buona legge ma non basta. Perché permette di partorire in ospedale e di non riconoscere il figlio, ma in realtà non tutela davvero l´anonimato». Proprio a cominciare dall´ospedale, dove la segretezza, dice la presidente di “Salvamamme”, non è affatto garantita. «Queste donne sono perseguitate, in fuga. Chi le nasconde? Chi le aiuta quando il momento di partorire si avvicina e l´unica soluzione a cui pensano è quella di abbandonare il neonato in un cassonetto? La risposta è semplice. Bisogna tappezzare proprio i cassonetti di tutta Italia con le istruzioni sul parto anonimo, con gli indirizzi delle “ruote” e con quelli dei consultori. Sono donne povere, straniere, colf, badanti: sono isolate, senza informazioni. Però almeno una volta al giorno questo è certo – conclude Maria Grazia Passeri – andranno a buttare la spazzatura, e vedranno quel volantino in più lingue, scoprendo così di avere ancora una via d´uscita: tenere con sé il bambino, farlo adottare da altri, chiedere aiuto. In ogni caso scelte di vita».
La Repubblica 10.06.11
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“Le straniere ignorano che l’aborto è legale così la nascita non voluta è l’unica alternativa”
Chi aiuta queste mamme negate prima e dopo il parto? E chi le informa delle possibilità alternative al cassonetto?
Come è possibile che nell´Italia delle culle vuote e dei bambini cercati a tutti i costi si consumino ancora tali drammi?
Il 70% dei parti anonimi in ospedale è effettuato da donne immigrate. Clandestine, senza reti, e terrorizzate dall´essere espulse. Perché se è vero che una immigrata irregolare al terzo mese di gravidanza può andare in questura e richiedere un permesso di soggiorno temporaneo, che le garantirà un anno al sicuro in Italia. È anche vero però che questo vuol dire rendersi visibili, uscire dall´ombra. «Le donne clandestine hanno paura – spiega Pilar Saradia, responsabile immigrazione della Uil del Lazio – nonostante il permesso di soggiorno copra i sei prima e i sei mesi dopo il parto. Ciò che temono è l´essere espulse dall´Italia allo scadere di questo breve periodo, e con un bambino in braccio. Così accade che le più sole, quelle fuori dalle reti di comunità, si ritrovino a dover gestire una gravidanza senza poter chiedere aiuto, e pur disperate abbandonano quel figlio che non saprebbero come gestire».
Dietro queste centinaia di parti anonimi, che riguardano appunto nel 70% dei casi donne immigrate, e nel 30% giovani ragazze italiane, ci sono alcune emergenze ben precise. «C´è un´area legata alla prostituzione – racconta Pilar Saradia – ci sono le vittime delle violenze sessuali, e anche tra le immigrate non poche minorenni. E poi c´è la mancanza di informazione. Molte straniere arrivano da paesi dove l´aborto è fuorilegge, il Perù ad esempio, e non sanno che qui invece è legale, ed è possibile interrompere una gravidanza in ospedale, anche se si è clandestine. Ma l´informazione non c´è, non passa, mentre invece passano i mesi. Così accade che per alcune non resta che l´abbandono del figlio. Sul fronte opposto – aggiunge ancora Pilar Saradia – sta emergendo un fenomeno altrettanto doloroso e segnalato proprio dai reparti di Ivg: molte donne immigrate, probabilmente assunte in nero, abortiscono per non perdere il posto di lavoro. Sanno bene che all´annuncio di una gravidanza si ritroverebbero per strada… ».
(m.n.d.l)
La Repubblica 10.06.11