Diciamo la verità: lo scandalo del calcio non sta scandalizzando nessuno. Era appena scoppiato e già mi chiamava un amico, splendida persona e paladino dei valori dell’azionismo piemontese. Per deprecare l’accaduto? No, per sapere se le disgrazie dell’Atalanta avrebbero permesso al nostro Toro di salire in serie A. Il giorno dopo Vittorio Feltri ha scritto un articolo spietato contro i calciatori corrotti, che però si concludeva con l’invito a non punire le squadre per le responsabilità dei singoli. Vittorio Feltri è dell’Atalanta. Ma non c’è conciliabolo da bar in cui i conversatori non regolino le loro opinioni sulla base di un unico metro di giudizio: le convenienze della squadra del cuore.
Ho peccato di ingenuità quando scrissi che i «mercenari dell’anima» stavano corrompendo il sogno bambino dei tifosi. A noi tifosi, dell’integrità dello sport non importa niente. Importa mettere nei guai la contrada nemica, meglio se con l’inganno e la sopraffazione. La partita di calcio non è l’oasi in cui l’adulto ritorna alla passionalità pura delle emozioni infantili, ma un rito di scarico delle schifezze accumulate durante la settimana. Un magma di pulsioni tribali che la retorica del tifo, a cui anch’io ho spesso fornito munizioni, si incarica di nobilitare. Siamo fermi al Colosseo. Un ammasso di spettatori passivi, per lo più di sesso maschile, delega le proprie rivendicazioni a un gruppo di professionisti che fingono di condividerle. Esattamente ciò che accade in politica, altra attività molto dibattuta da noi maschi. Voglio guarire, ma non so come si fa.
La Stampa 10.06.11