attualità, politica italiana

"La forza dell'emozione", di Barbara Spinelli

Improvvisamente, come se per quasi vent´anni non avesse costruito il proprio potere sulla concitazione degli animi, Berlusconi invita alla calma, sul nucleare. È il perno della campagna contro i referendum: non si può decidere, «sull´onda dell´emozione» causata da Fukushima, con il necessario distacco. Lo spavento, ripetono i suoi ministri, «impedisce ogni discussione serena».
La parola chiave è serenità: serve a svilire alle radici il voto del 12-13 giugno. È serenamente che Berlusconi proclama, proprio mentre Germania e Svizzera annunciano la chiusura progressiva delle loro centrali: «Il nucleare è il futuro per tutto il mondo». È una delle sue tante contro-verità: la Germania cominciò a investire sulle energie alternative fin da Chernobyl, e il piano adottato il 6 giugno non si limita a programmare la chiusura di tutti gli impianti entro il 2022: la parte delle rinnovabili, di qui al 2020, passerà dal 17 per cento al 38, per raggiungere l´80 nel 2050. È emotività? Panico? Non sembra. È il calcolo razionale, freddo, di chi apprende dai disastri e non li nasconde né a sé né ai cittadini. È una presa di coscienza completamente assente nel governo italiano, aggrappato all´ipocrita nuovo dogma: «Non si può far politica con l´emozione».
Si può invece, e l´esempio tedesco mostra che si deve. La politica è una pasta il cui lievito è l´emozione che persevera, non c´è svolta storica che non sia stata originata e nutrita da passioni tenaci, trasformatrici. L´emozione può iniettare nel cuore fatalismo ma può anche rimettere in moto quello che è immobile, aprire gli occhi quando hanno voglia di chiudersi, e tanto più disturba tanto più scuote, sveglia. Le catastrofi (naturali o fabbricate) hanno quest´effetto spaesante. D´altronde lo sconquasso giapponese non è il primo. C´è stato quello di Three Mile Island nel 1979; poi di Chernobyl nell´86. Berlusconi salta tre decenni, e censura il punto critico che è stato Fukushima, quando afferma che tutto il pianeta prosegue tranquillo la sua navigazione nucleare.
La serenità presentata d´un tratto come via aurea non ha nulla a vedere con le virtù della calma politica: con la paziente rettifica di errori, con la saggezza dell´imperturbabilità. È un invito al torpore, alla non conoscenza dei fatti, alla non vigilanza su presente e futuro. Sembra una rottura di continuità nell´arte comunicativa del premier ma ne è il prolungamento. Ancora una volta gioca con passioni oscure: con la tendenza viziosa degli umani a procrastinare, a nutrire rancore verso chi fa domande scomode, a non farsi carico di difficili correzioni concernenti l´energia, gli stili di vita, la terra che lasceremo alle prossime generazioni. L´emozione accesa da Fukushima obbliga a guardare in faccia i rischi, a studiarli. Lo stesso obbligo è racchiuso nel referendum sulla gestione privata dell´acqua, e in quello sulla legge non eguale per tutti. Di Pietro ha ragione: mettere sui referendum il cappello di destra o sinistra è un insulto agli elettori, chiamati a compiere scelte che dureranno ben più di una legislatura. È sminuire la forza che può avere l´emozione, quando non finisce in passività e rinuncia.
Anche lo spavento – la più intensa forse tra le emozioni – ha questa ambivalenza. Può schiacciare ma anche sollevare, rendere visibile quel che viene tenuto invisibile. La responsabilità per il futuro, su cui ha lungamente meditato il filosofo Hans Jonas, è imperniata sulle virtù costruttive – proprio perché perturbanti – che può avere la paura. Di fronte al clima degradato e al rapporto perverso che si crea fra le crescenti capacità tecnologiche dell´uomo e il potere, lo spavento è sentinella benefica: «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità non intendiamo la paura che dissuade dall´azione, ma quella che esorta a compierla».
Temere i pericoli significa pensare l´azione come anello di una catena di conseguenze: vicine e lontane, per il nucleare, l´acqua e anche la legge. Per paura ci nascondiamo, ma per paura si cerca anche la via d´uscita. Un affastellarsi di emozioni generò nel ´700 i Lumi, che sono essenzialmente riscoperta del pensiero critico, rifiuto della piatta calma dei dogmi. Per Kant, illuminismo e modernità nascono con un atto di inaudito coraggio: Sapere aude! osa sapere! La filosofia comincia con la meraviglia e il dubbio, secondo Aristotele, perché chi prova queste emozioni riconosce di non sapere e, invece di gettare la spugna, osa.
La modernità, non come epoca ma come atteggiamento, è questo continuo osare, dunque farsi coraggio nel mezzo d´una paura. È ancora Jonas a parlare: «Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità, altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, perché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici».
La paura non è l´unica emozione trasformatrice. La malinconia possiede analoga energia, e anche lo sdegno per l´ingiustizia, il dolore per chi perisce nella violenza. Claudio Magris ha descritto con parole vere l´indifferenza con cui releghiamo negli scantinati della coscienza i cadaveri finiti a migliaia nel mare di Sicilia (Corriere della sera, 4-6-11). Sono parole vere perché disvelano quel che si cela nella tanto incensata serenità: l´assuefazione, la stanca abitudine, «l´incolmabile distanza fra chi soffre e muore e quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono esser troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo». Tuttavia in quei gorghi bisogna discendere, quei morti non vanno solo onorati ma ci intimano ad agire, a far politica alta.
Berlusconi ironizza spesso sulla tristezza. Sostiene che le sinistre ne sono irrimediabilmente afflitte, e paralizzate. Non sa che Ercole, il più forte, è archetipo della malinconia. In uno dei suoi racconti (Disordine e dolore precoce) Thomas Mann si spinge oltre, scrivendo a proposito della giustizia: «Non è ardore giovanile e decisione energica e impetuosa: giustizia è malinconia».
Emozionarsi è salare la vita e la politica, toglier loro l´insipido. Evocando i naufraghi dimenticati, Magris si ribella e scrive: «Il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più. A differenza di Cristo, non possiamo soffrire per tutti». Non siamo Cristo, ma possiamo avere un orientamento che ricorda le sue virtù, le sue indignazioni, il suo pathos. Herman Melville dice: Gesù vive secondo i tempi del cielo, per noi impraticabili; noi siamo orologi mentre lui è cronometro, costantemente orientato sul grande meridiano di Greenwich. Ricordare il cronometro significa avere a cuore i morti con spavento, perché spaventandoci cercheremo vie nuove. Nella Bibbia come nel Corano il cuore è sede della mente che ragiona.
È vero, per agire dobbiamo evitare che i disastri ci travolgano. Ma non è detto che la soluzione sia ignorarli, non commuoversi più. Il 15 aprile scorso, a Gaza, un giornalista e cooperante italiano, Vittorio Arrigoni, è stato strangolato (da estremisti salafiti, è stato detto). L´omicidio fu condannato dall´Onu, da Napolitano, dal governo. Ma alle sue esequie, il 24 aprile a Bulciago, non c´era un solo rappresentante dello Stato, generalmente così zelante nei funerali. L´unica corona di fiori fu inviata dal Manifesto. Piangere l´assassinio di Arrigoni era politicamente scorretto, non sereno. Ma onorare i morti è passione nobile; come la paura, la malinconia e non per ultima la vergogna: l´emozione sociale e trasformatrice per eccellenza. Lo riscopriamo alla vigilia dei referendum, ma lo sappiamo da quando Zeus, nell´Agamennone di Eschilo, indica la strada d´equilibrio: «Patire, è capire».

La Repubblica 08.06.11

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