Guardando gli spostamenti elettorali ciò che più mi colpisce è la difficoltà di capire, anche a sinistra, cosa è successo di veramente nuovo e di profondo. Sembra che improvvisamente sia emerso un mondo sconosciuto. Ma come? Non si era detto (un coro assordante) che il Pd era ormai ridotto a un fatto appenninico, tosco-emiliano, e che dovevamo solo cercare di imitare la Lega che certamente avrebbe vinto le elezioni perché rappresentava l’anima e il nuovo blocco sociale del Nord? E adesso si scopre che il Pd è nettamente il primo partito e che, col centrosinistra, governa non le valli alpine ma tutta l’area metropolitana della Padania, da Torino a Milano, da Genova a Venezia, da Trento a Bologna e Trieste. Ma come? Non eravamo ridotti al punto che per sopravvivere dovevamo accettare un «Papa straniero»? Mi scuso per questo piccolo sfogo polemico.
In realtà esso mi serve per capire meglio la novità e la portata del messaggio che questo voto manda anche a noi. Parlo senza nessuna iattanza perché conosco l’enorme difficoltà dei problemi e la nostra inadeguatezza. Il fatto è che Milano, il cuore produttivo del Paese, ci dice tante cose ma al fondo il suo messaggio si può riassumere così. Siamo a un passo da eventi che se non governati possono rimettere in gioco tutto: desistenza di una grande Italia industriale, un drastico aumento della povertà anche tra i ceti medi, il precariato come destino di una generazione con ovvie ricadute sull’unità nazionale e la
democrazia repubblicana. Altro che declino. Un salto storico all’indietro come nel Seicento.
La mia impressione è che il Nord vota così perché sente e vive più direttamente di altri questi rischi. E perciò sente il bisogno di un riscatto civile. Non solo per moralismo ma per la necessità di una mobilitazione nuova di risorse sociali e intellettuali, essendo questa la condizione per uscire dal pantano, dal blocco ormai decennale della crescita denunciato l’altro giorno perfino dal governatore Draghi.
Ecco allora il nostro grande problema. Cade sulle nostre spalle una responsabilità enorme. Sono in gioco le stesse ragion d’essere del Partito democratico. La gente ci ha scelto non perché abbiamo il sole in tasca ma perché si comincia a capire che il Pd non è più la somma delle vecchie faide e dei vecchi partiti ma sta facendo emergere l’idea di una forza nuova in quanto più aperta, più tollerante ed inclusiva. Ma soprattutto perché stiamo cercando di ridefinire il senso di una nuova militanza politica. I media parlano ancora una vecchia lingua, quella del «politichese». Cercano il chi comanda e capiscono ancora poco un leader che non disprezza affatto le alleanze, le considera anzi necessarie, ma si rifiuta di definirle a priori. E perché? Perché parte da più in alto. Perché pensa che il suo scopo, il suo assillo, l’oggetto della sua politica è «salvare l’Italia». Capisco: una frase così sembra perfino ridicola. Invece questa è oggi (o dovrebbe essere) la politica. Come quando io ero ragazzo. La politica che mi travolse insieme a tanti altri giovani. Il messaggio di un certo Ercoli che sbarcò a Salerno e ci disse che dovevamo prima di tutto unirci e prendere le armi per cacciare i tedeschi. E il resto veniva dopo. E così accadde. Avvenne che ci mettemmo alla testa degli italiani per renderli padroni del loro destino e, quindi, i costruttori di un’Italia nuova. E ci riuscimmo. Il miracolo economico. La Costituzione democratica.
Oggi l’Italia è a un passaggio simile. Ho sentito il discorso di Draghi alla Banca d’Italia. Tutte cose giuste e dette benissimo. Tutte cose che bisognerebbe fare e che il Pd riproporrà certamente nel suo progetto per l’Italia. Ma vogliamo dire la verità? Tutte cose che già sapevamo ma che, per farle, richiedono che finalmente la politica (la grande politica) decida due cose. La prima è che per «canalizzare» il risparmio e le risorse tuttora grandi del Paese verso la crescita occorrono grandi investimenti nei beni pubblici, scuola, servizi, strutture e capitale umano. E anche questo lo sappiamo.
Ma come possiamo farlo senza inventare qualche strumento nuovo di politica economica che sia in grado di non sottostare alle logiche di un’oligarchia finanziaria che domina il mercato e si «mangia» l’economia reale? La seconda cosa è che il potere politico rompa l’attuale suo vergognoso intreccio con le infinite rendite che soffocano la produttività del sistema italiano e ci condannano al declino.
Qui sta la sostanza del messaggio politico che viene dal voto. Questo è il nostro compito: mettere in campo non solo un grande progetto, ma anche una nuova soggettività etico-politica. Perché nessun progetto è credibile se invece di restituire alla democrazia gli strumenti per decidere persiste l’idea che domina da anni secondo cui la società è poco più che la somma degli individui, per cui il solo modo per tenerla insieme è il populismo oppure il «lasciar fare al mercato».
Andiamo verso prove molto difficili, ma noi possiamo dare una speranza all’Italia se il Pd si rende conto che emergono dalla società civile spinte di solidarietà umana che riflettono un aumento della capacità e volontà delle persone di riprendere il controllo della propria vita.
L’Unità 05.06.11