Fui io a proporre quello che è oggi l’articolo 50 del Trattato dell’Unione Europea, l’articolo che consente agli Stati membri di recedere dalla stessa Unione. Ma quando lo pensai, e quando fu approvato, a nessuno venne in mente che potesse servire in occasione del fallimento finanziario di uno dei nostri Stati. Nessuno dice ora di volerlo. Ma quando, tre giorni fa, la commissaria europea per la Pesca, la greca Maria Damanaki, ha detto che senza un accordo con i suoi creditori la presenza della Grecia nel mercato comune era in serio pericolo, abbiamo tutti capito che l’ipotesi del recesso è comunque entrata fra quelle a cui si pensa (tanto più che l’uscita dall’euro senza l’uscita dall’Unione non è legalmente possibile).
È un’ipotesi tutt’altro che facile da praticare, soprattutto non lo è con l’immediatezza che in genere caratterizza le risposte all’emergenza finanziaria. Basta leggere la procedura per rendersene conto. È una procedura di negoziato, intesa a sistemare le complesse partite di dare e di avere che si sono venute formando negli anni di comune permanenza nell’Unione, e per essa l’art.50 prevede un termine di ben due anni.
La realtà è che l’articolo fu scritto e voluto più come deterrente, che come norma destinata ad essere effettivamente applicata. Per anni la strategia ostruzionistica e di logoramento degli euroscettici di stampo britannico si era avvalsa dell’argomento «ci dite che l’appartenenza all’Unione è irreversibile, siamo dunque costretti a stare insieme e allora non potete imporci questo, non potete negarci quest’altro» e così via tirando permanentemente la corda. Bene, dice ora l’art.50, qui nessuno è tenuto a rimanere per forza e se ciò che per tutti gli altri va bene non va bene invece per qualcuno, la porta è lì e quel qualcuno può accomodarsi. Il vecchio ricatto, insomma, non è più possibile.
Eppure oggi di un recesso della Grecia si è cominciato a parlare, sia pure per escluderlo. E in un contesto spietato come quello dei mercati finanziari qualunque ipotesi venga messa sul tappeto diventa sempre uno scenario possibile, sul quale vengono misurate convenienze e del quale, se convenienze possono esserci, qualcuno cercherà di favorire l’avvento. Come siamo arrivati a questo punto nei confronti di un Paese che non è mai stato euroscettico e neppure “euro turbolento”?
Certo, si è scoperto due anni fa che i suoi conti erano truccati e che aveva abbondantemente violato il patto di stabilità, senza farlo trapelare. Ma da allora il Governo Papandreu si è impegnato in un robusto programma di restrizioni e di riforme per rimettere la Grecia in riga. Perché la Grecia è ora in ginocchio e sui mercati pochi credono che riesca a ripagare il suo debito e ci si aspetta invece il “default”? È l’asticella che le è stato chiesto di saltare che è troppo alta, oppure sono i greci che si rifiutano di saltarla e alimentano attorno a sé una crescente sfiducia? E a chi servirebbe l’eventuale e pur denegato recesso, agli stessi greci per sottrarsi a una condizione divenuta per loro insostenibile, o agli altri paesi dell’Eurozona, per amputare la parte infetta ed evitare il contagio?
Chi ha seguito l’evoluzione della vicenda greca sa perfettamente che le responsabilità del temuto disastro vanno ripartite equamente tra i soccorritori della Grecia e la Grecia stessa alle prese con le condizioni che essi le hanno imposto. Dei soccorritori in casi di emergenza si suole dire che “sono corsi” in aiuto di chi aveva bisogno di loro. Ecco, dei soccorritori della Grecia tutto si può dire tranne questo. E il tempo che l’Unione Europea ha fatto passare prima che soprattutto la Germania vincesse le sue interne ritrosie ha consentito ai tassi di interesse sul debito greco di raggiungere vette talmente elevate da rendere per ciò solo problematico un rientro inizialmente molto più praticabile.
Dall’altra parte gli impegni che George Papandreu ha dovuto prendere per il suo Paese erano essi stessi un’asticella troppo alta (in un solo anno avrebbe dovuto ridurre l’indebitamento di ben 7.5 punti) ed hanno per di più incontrato ogni sorta di ostacolo interno, dalla forte ostilità di diversi segmenti sociali, all’irresponsabilità dell’opposizione che l’ha alimentata, alla vera e propria renitenza di chi quegli impegni li doveva eseguire e in molti casi si è ben guardato dal farlo. La conclusione è che la Grecia ha oggi un debito troppo alto da pagare e una propensione troppo bassa a mettersi nella condizione di farlo.
I mercati sono ora in attesa e fanno capire non solo che il default della Grecia sarebbe destabilizzante per tutta l’Eurozona, ma anche che un eventuale allungamento delle scadenze per i titoli greci, specie per quelli in mani private, sarebbe ritenuto equivalente a un default. Ciò significa che a quel punto non sarebbe solo la Grecia a vedere precipitare il suo merito di credito.
In questo clima non è affatto impensabile che qualcuno si chieda: ma allora non sarebbe meno destabilizzante se la Grecia uscisse dall’Unione? Certo non finirebbe di soffrire, anzi con il ritorno alla dracma pagherebbe tutte le conseguenze di una prevedibile, forte inflazione. Ma almeno non sarebbe soggetta a condizioni tanto difficili da rispettare e i suoi creditori, volenti o nolenti, dovrebbero accontentarsi di pagamenti con una valuta sempre più debole, che proprio attraverso la svalutazione (come tante volte è accaduto nella storia) alleggerirebbe il peso del debito. Per parte sua l’Unione Europea eviterebbe di impelagarsi in ulteriori impieghi di risorse e in ulteriori condizioni che, in caso poi di fallimento, la renderebbero sempre più corresponsabile dello stesso fallimento, con effetti ancora più probabili di contagio e di destabilizzazione. Fermarsi ora e amputare la parte malata, e cioè la Grecia, potrebbe invece evitarlo.
Il Sole 24 Ore 30.05.11