Lo scavo nei genocidi contemporanei è la branca più specializzata dell´archeologia. A Srebrenica, occorre mettere insieme il 75 per cento del corpo identificato per dargli una singola sepoltura. Le parti incompiute finiscono nel cimitero comune.
Ho chiesto al sindaco: a Srebrenica le persone di nazionalità musulmana sono oggi fra i duemila e i duemilacinquecento. Una piccolissima frazione, neanche il 10 per cento, di quanti erano prima del 1992. Una piccola frazione anche di quelli – ottomila, diecimila – che furono sterminati in quattro giorni nel luglio del 1995. È strana, una popolazione in cui i vivi sono così pochi rispetto ai morti, e i morti hanno tutti la stessa data. Erano 36 mila gli abitanti di Srebrenica nel 1991, molti di più in quell´estate del 1995, perché le Nazioni Unite l´avevano solennemente dichiarata “zona protetta” e vi si erano rifugiati gli sfollati dei paesi occupati dalle milizie di Ratko Mladic. Una stessa data per migliaia di morti, uno stesso nome di carnefice, uno che seppe fare le cose in grande. Naturalmente, vi diedero mano in tanti, e le circostanze si prestarono. Non è facile macellare migliaia di uomini così in fretta, e seppellirli e disseppellirli, anche, per provare a dissimularne le tracce. Le tracce sono rimaste, enormi. Anche un macabro filmato girato dagli assassini, stanchi e fieri della loro opera. La morte, scrisse il montenegrino-sarajevese Marko Vesovic, è un capomastro serbo. Anche gli animali umani sono come certe fiere addomesticate, che bisogna stare attenti a non far risentire loro il sapore del sangue perché non se ne facciano travolgere. Il filmato più orrendo di quelle giornate di Srebrenica, più ripugnante a guardarsi delle innumerevoli scene di fosse comuni e riesumazioni e donne in pianto, è quello che tutto il mondo guardò in diretta, quando alla base di Potocari Mladic interroga il colonnello olandese e gli offre una sigaretta, e quello gli dice con un filo di voce che ha già fumato troppo e poi l´accetta, e poi accetta anche di brindare, e poi la gente viene messa in fila, donne di qua e uomini di là, e i militari olandesi dell´Onu assistono e collaborano, e un bambinello biondo viene spinto fuori dalla fila e il gran generale Mladic dà uno schiaffetto alla sua faccia frastornata, e finalmente gli uomini di Mladic lanciano cioccolata ai bambini che si sporgono ad afferrarla. Poi il filmato finisce e arriva il buio.
Quante cose abbiamo capito di Auschwitz da quel filmato. Come gli animali umani annusino gentilmente l´odore del sangue, prima di buttarsi. La morte è un abile capomastro, tedesco, serbo, e all´occorrenza di qualsiasi nazione. Mladic odiava in memoria di un padre assassinato dai fascisti croati, ha esasperato il suo odio dopo che una figlia si è ammazzata per orrore di lui. La sua cattura è avvenuta con un ritardo scandaloso. Però è avvenuta, e benché metta il governo serbo in imbarazzo quasi come quello pakistano, ha derogato alla sequela macabra. All´Aja è interdetta la pena di morte. Mladic è stato preso vivo, a differenza di Bin Laden, e vivo si è fatto prendere, come il suo camerata e rivale Karadzic: alla morte propria, non tenevano tanto. A Srebrenica, ieri, i serbo-bosniaci (sapete che, sale sulla ferita, Dayton ha assegnato all´”entità” serbo-bosniaca la cittadina martire) avranno reagito come il resto dei serbi, i più, forse, ancora, piangendo l´arresto di un loro idolo, gli altri, chi non si compromise o chi se n´è vergognato, sentendo riscattata l´infamia che pesa su tutti. Perché la “colpa collettiva” non esiste sul piano penale, dove valgono solo le responsabilità personali provate, ma esiste tragicamente sul piano morale. Il presidente serbo Tadic partecipò alle ultime commemorazioni di Srebrenica, e un parlamento serbo riluttante votò a maggioranza l´anno scorso una dichiarazione che, curando di non nominare il genocidio – sancito definitivamente dal Tribunale dell´Aja – ha offerto le sue scuse alle vittime.
A Sarajevo, ieri, il sollievo amarissimo con cui è stata accolta la notizia si è accompagnato, soprattutto nei commenti ufficiali, alla diffidenza per il momento in cui è arrivata, vigilia del rapporto del procuratore capo dell´Aja al Consiglio di Sicurezza dell´Onu, e addirittura nel corso della visita di Catherine Ashton. Si può pensare che la giustizia sia troppo lenta ad arrivare. Oppure che sia lenta, ma arrivi. È quello che hanno sentito ieri a Sarajevo. Nessuno, nel momento della caduta, è all´altezza dei suoi crimini, delle migliaia di assassinati, torturati, delle stuprate e umiliate; e dei salvati, anche, perché questi granduomini si beano del potere di vita e di morte, e ne lasciano andare uno su dieci o su cento, che sappia di dovergli la vita. La cattura di Mladic, un pallone sgonfiato, restituisce alla gente bosniaca – non ai suoi delinquenti e ai suoi fanatici integralisti, che pure ci sono stati, come dovunque – un risarcimento morale e civile. Dall´altra parte, contribuisce alla ricostruzione dell´onore perduto della Serbia. E finalmente, verrebbe da dire, per finire bene, riconosce all´Europa, e alle severe condizioni che ha dettato alla Serbia, il merito di aver ottenuto giustizia. Solo che. Solo che l´Europa e le sue condizioni – più rigorosa di tutti, nell´esigerle, l´Olanda, e si capisce – lasciò che violenza, infamia e atrocità venissero perpetrate, e non di rado le fomentò e le secondò, per interesse o per viltà, e il fatto che avvenissero nei famigerati “Balcani” e che la Jugoslavia non appartenesse formalmente all´Unione europea non toglieva che fosse Europa anche quella di Sarajevo, così vicina, e così pulsante della stessa storia.
È difficile chiamare francamente la cattura di Mladic come un successo dell´Europa: è più vero che essa ne attenua la macchia. Proprio in questi giorni l´Europa, e l´Occidente intero, devono chiedersi drammaticamente a che cosa possa approdare il loro intervento, e dunque se e come e quando vada condotto. La vicissitudine della ex Jugoslavia, e la voragine di Srebrenica, rispondono all´interrogativo opposto: che cosa succede quando si ometta intervento e soccorso. Quando una telefonata in partenza da Potocari non viene inoltrata dal comando di Sarajevo al comandante generale francese della missione, e poi il comando generale non autorizza il decollo degli aerei, e poi lo autorizza ma gli aerei hanno dovuto tornare indietro perché avevano esaurito i rifornimenti, e quando si alzano sono troppo pochi e su una rotta imprecisa – storie come queste, e ancora più ridicole, raccontano le solenni commissioni d´inchiesta sui cinque giorni del genocidio di Srebrenica.
Infine, la notizia di Sarajevo dev´essere arrivata anche ai bambini. Spiegò Irfanka Pasagic, che si occupa del dolore dei superstiti: «Spesso diciamo che i bambini sono il nostro futuro. Io dico che siamo noi il loro futuro. Se centinaia di migliaia di bambini della Bosnia Erzegovina cresceranno nella convinzione che i criminali possano restare impuniti e che la sofferenza che hanno subito non meriti una condanna, distruggeremo il loro futuro». Ecco, mi sono chiesto se il bambino dalla faccia frastornata spinto fuori dalla fila del mattatoio perché il gran generale Ratko Mladic (il “Dio serbo”) gli desse un buffetto davanti alle sue telecamere prima che facesse buio, sia vivo, e abbia sentito la notizia ieri.
La Repubblica 27.05.11
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“Per noi un solievo, adesso deve pagare”, di BILJANA SRBLJANOVIC
Prima è girata la notizia di un arresto, poi il presidente Tadic ha annunciato la conferenza stampa. Per mesi, e tutto il Paese lo sa, l´arresto di Mladic era l´unica cosa che poteva portare Tadic e la coalizione democratica alla vittoria nelle elezioni che si svolgeranno tra qualche mese. Anche perché Tadic cerca disperatamente la possibilità di una candidatura del Paese per l´entrata nell´Unione Europea prima di annunciare le elezioni.
L´esperienza delle elezioni precedenti ci dice che i criminali di guerra qui si arrestano con il contagocce e secondo le esigenze. Karadzic è stato arrestato quando Tadic aveva bisogno di vincere le elezioni. Mladic alla vigilia delle nuove consultazioni, quando la ricandidatura del presidente sembrava in bilico.
Con la cattura di Mladic io dovrei essere felice. So che, se non altro, con questo atto la giustizia universale, cosmica è soddisfatta. So che solo adesso le migliaia di anime delle vittime possono in senso simbolico trovare pace. So che è il minimo che il mio Paese poteva fare per espiare gli orribili crimini compiuti.
Comunque, in qualche modo, non riesco a essere felice, non riesco a condividere la gioia su Facebook o Twitter, non posso coinvolgermi nelle analisi razionali, mi sento miseramente sconfitta. Quell´uomo è un assassino di massa, attentamente nascosto dallo Stato–apparato, dai diversi governi che si sono succeduti e per lunghi quindici anni.
Ratko Mladic, anche dopo Srebrenica, ha seminato la morte, i ragazzi morivano solo perché come soldati di leva si sono trovati per caso vicino a uno dei suoi nascondigli. È stato per 15 anni più importante e più forte di ogni cittadino serbo, di un intero sistema politico, del concetto stesso di diritto e giustizia, morale. Il suo arresto e la sua consegna sono un grande sollievo ma una piccola vittoria. Per 15 anni il macellaio ha vissuto protetto e quando finalmente avviene questo cambiamento politico, lo arrestano senza difficoltà. Anche se considero questo di Boris Tadic un atto di grande onestà e coraggio, da lui avviato assumendosi una grande responsabilità e notevoli rischi, mi resta difficile non pensare ad una cosa sola: perché cosi tardi?
Traduzione Ljuba Jovicevic
La Repubblica 27.05.11
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“Ora catturate tutti i complici” L´urlo delle donne di Srebrenica, di Valeria Fraschetti
Dove sono i criminali che hanno nascosto i colpevoli? Non è giustizia, ma solo politica. «Ratko Mladic non è stato arrestato per restituire giustizia alle famiglie delle vittime: lo scopo dell´operazione è la convenienza per la politica internazionale del governo serbo». Hatidza Mehmedovic, presidente dell´associazione “Donne di Srebrenica”, non si illude neanche nel giorno che ha atteso per 15 anni: da quel dannato 11 luglio 1995 in cui la follia genocida delle truppe di Mladic le massacrò il marito e i due figli, di 21 e 17 anni. Le loro ossa sono state individuate solo nel 2010 e sepolte a Potocari assieme a quelle finora ritrovate degli altri 8.372 musulmani bosniaci uccisi. Ed è proprio dal memoriale delle vittime che la vedova risponde al telefono: «Quando ho accesso il televisore non credevo alle mie orecchie. Ma dopo l´annuncio del presidente Boris Tadic sono corsa qui, come tutte le altre madri e sorelle di Srebrenica. Dove altro saremmo dovute andare a trascorrere questa giornata?»
Signora Mehmedovic, cosa significa per lei questo giorno?
«La cattura del generale Mladic è molto importante. Ma lui non è che un anello della catena ideologica che ha caratterizzato la guerra dei Balcani negli anni ‘90 e che è ancora esistente».
È anche per via di quel che lei chiama “catena ideologica” che ci sono voluti 15 anni per catturare Mladic?
«Il nazionalismo di Milosevic ancora sopravvive nei Balcani e, nonostante non si combatta più con le armi, non si è ancora tornati a una vita normale fatta di convivenza pacifica. Per questo l´arresto di Mladic rappresenta un ulteriore attacco al negazionismo che ancora qualcuno sostiene».
Quindi Belgrado dimostra di voler voltare definitivamente pagina?
«L´operazione è motivata solo dalla convenienza per la politica internazionale, non dalla giustizia».
Il suo dolore sarà diverso da oggi?
«Continuerà a non essere alimentato dalla vendetta, ma dalla voglia di giustizia. Anche se venissero arrestati e processati tutti i criminali e i complici che in questi anni hanno nascosto i colpevoli di quel massacro, e ce ne sono ancora molti in circolazione, i nostri cari non tornerebbero comunque in vita. Non auguro nemmeno al mio peggiore nemico di subire ciò che abbiamo subito noi: colpevoli solo di essere nati nel posto e nel momento sbagliati».
(ha collaborato Daghi Rondanini)
La Repubblica 27.05.11