Del Rapporto annuale dell’Istat presentato ieri si possono fare due usi. Il primo è quasi scontato. Il presidente Enrico Giovannini, economista e statistico di rango, non ha usato i guanti di velluto e ci ha fornito una fotografia impietosa della situazione economica e sociale del Paese. La gallery dei dati Istat abbraccia un periodo di tempo sicuramente più lungo della legislatura in corso ma non c’è dubbio alcuno che quella raffica di numeri impallina, al netto della crisi, il governo in carica, concorre a rafforzare l’opinione che l’esecutivo guidato da Berlusconi sia pienamente responsabile dell’accresciuta vulnerabilità del Paese. Questo, dunque, è il primo utilizzo che si può fare del lavoro dell’Istat e l’opposizione ieri vi ha fatto ampiamente ricorso, incoraggiata nei suoi raid anche dagli imbarazzati commenti degli uomini di governo. Ma pagato il (quotidiano) tributo alla rissosità della vita politica italiana e alla contingenza elettorale, c’è un altro uso — diciamo economico-scientifico— che si può fare delle analisi e delle parole di Giovannini. Grazie all’autorevolezza dell’Istat e del suo presidente si può cominciare a ragionare della condizione femminile come del «centrocampo» della società italiana. Qualsiasi intenditore di calcio sa bene che il centrocampo assolve una doppia funzione, di diga e di ripartenza. Così le donne in Italia oggi sono un argine al tracollo dello Stato sociale novecentesco ma al tempo stesso rappresentano la componente più motivata del mercato del lavoro. Questo doppio ruolo non può però essere assolto all’infinito e, se come sta avvenendo in Italia la crescita si muove alla velocità di una tartaruga, il centrocampo rischia di spezzarsi in due. Già negli anni scorsi, per la precisione tra il 2008 e il 2009, l’Istat ci segnala il verificarsi di un fenomeno che ha del clamoroso: ben 800 mila donne hanno dato le dimissioni in bianco dal loro posto di lavoro a causa dell’imminente maternità. Oggi sta accadendo qualcosa di analogo e rischiamo una nuova segregazione di genere. Le donne italiane sono costrette a farsi carico di quei compiti di assistenza e solidarietà che lo Stato non riesce ad assolvere, restano 12 punti sotto il tasso di occupazione delle loro colleghe europee e trovano come sbocco prevalente solo i mestieri non qualificati quali addetta alle pulizie, colf, badante e centralinista. Che fare di fronte a queste evidenze e alla rottamazione di chances femminili che ciò comporta? La letteratura economica indica come ricetta prevalente l’adozione di un nutrito pacchetto di riforme strutturali. Il governo non ama che si suoni questo tasto e preferisce stilare documenti per lo più inutili e non supportati da un euro di finanziamento. Così nello scontro tra riformisti e fatalisti si rischia lo stallo e persino la beffa. Come dimenticare l’assurdo dibattito sulle quote rosa con tanti a brandire la spada della meritocrazia, pur di boicottare un provvedimento che avrebbe avuto un alto valore simbolico e avrebbe tolto qualche poltrona ai presenzialisti della governance? In attesa che la crescita riparta noi abbiamo bisogno di supportare il centro del campo, non possiamo lasciare che la straordinaria vitalità del «Fattore D» sia frustrata dall’incapacità del mondo politico di sostenerne gli slanci. Un paio di proposte sono circolate di recente e possono rappresentare, quanto meno, un segnale di inversione di tendenza. Una risposta all’implicito appello dell’Istat. La prima è venuta dalla Banca d’Italia poche settimane fa ed è ampiamente realizzabile. Si tratta di rivedere il sistema degli assegni e delle detrazioni per carichi familiari e di rimodularli canalizzando le risorse in un credito di imposta finalizzato a incentivare l’occupazione femminile, in special modo delle madri. La seconda è stata avanzata sul sito www. ingenere. it da Chiara Martuscelli. In questo caso si propone di vincolare i risparmi, che si ottengono dall’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nella pubblica amministrazione, a politiche di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Il tesoretto previdenziale vale 3,7 miliardi di euro nel periodo 2010-2019 e successivamente 240 milioni l’anno. Bisognerebbe evitare che, come è accaduto nel 2010 e 2011, siano ancora utilizzati nel tritacarne delle manovre di finanza pubblica e abbiano invece un loro preciso target.
Il Corriere della Sera 24.05.11