Sondaggio Demos-Coop. Il ceto medio diventa minoranza. C´è insoddisfazione in Italia. Un´insoddisfazione sorda ma non più muta. Trapela da mille segnali, piccoli e grandi. Le proteste sociali che si susseguono, da mesi. In modo ostinato e insistente. Nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. L´abbiamo riconosciuta, da ultimo, nel voto amministrativo. Che ha rivelato cambiamenti profondi. E inattesi. Dietro a tanta insoddisfazione si colgono tanti motivi, di natura diversa. Uno, però, risulta evidente. L´ascensore sociale è in discesa, da troppo tempo. Per usare un ossimoro. I dati dell´Osservatorio di Demos-Coop, al proposito, sono espliciti. Anzitutto, la classe sociale (percepita dagli italiani). Per la prima volta, da quando conduciamo i sondaggi dell´Osservatorio, la piramide si rovescia completamente. Senza “mediazioni”. Infatti, le persone che si collocano nella “classe operaia” oppure fra i “ceti popolari” superano, per estensione, quelle che si sentono “ceto medio”. Dalla cetomedizzazione degli anni Ottanta – un neologismo ostico ma suggestivo, coniato da Giuseppe De Rita – si sta scivolando verso una sorta di “operaizzazione”. Singolare destino, visto che da tempo si predica l´estinzione della classe operaia. Tuttavia, l´indicazione del sondaggio è esplicita. Il 48% del campione nazionale dice di sentirsi “classe operaia” (39%) oppure “popolare” (9%). Il 43%: “ceto medio”. Il 6%, infine, si definisce “borghesia” o “classe dirigente”. È l´unico settore sociale stabile. (Le classi privilegiate, d´altronde, sentono la crisi meno delle altre. Anche se la temono.) Invece, il peso del “ceto medio” è sceso di 5 punti negli ultimi tre anni e di 10 negli ultimi cinque. Simmetricamente, l´ampiezza di coloro che si sentono “classe operaia” oppure “popolare” è cresciuta di 3 punti negli ultimi tre anni e di 9 negli ultimi 5. Prima causa: lo slittamento dei lavoratori autonomi (artigiani e commercianti). Metà di essi oggi si posiziona nei ceti popolari. Lo stesso avviene per circa un terzo di impiegati e tecnici.
Peraltro, l´insoddisfazione verso l´economia e il mercato del lavoro, secondo il sondaggio Demos-Coop, non è mai stato tanto elevata. Verso l´economia: nel 2004 coinvolgeva il 59% della popolazione, oggi il 71%. Verso il lavoro: nel 2004 era espressa dal 60% della popolazione, oggi inquieta il 75%. La delusione sociale: investe tutti. La novità assoluta è che il senso di declino sociale non riguarda i “soliti noti”. Operai, pensionati e disoccupati, su tutti. Ma risucchia altri gruppi, che si è soliti collocare (e fino a qualche anno fa si collocavano) più in alto. Nei ceti medi. Perfino nelle classi dirigenti.
Una quota ampia di lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto di liberi professionisti (44%) oggi definisce la propria condizione di lavoro “precaria”.
D´altra parte, basta considerare il lavoro realmente svolto nell´ultimo anno dagli intervistati. Una componente ampia di essi (il 17% sul totale) dichiara di aver lavorato in modo temporaneo, per una parte più o meno ampia dell´anno. Si tratta dei giovani, soprattutto. E degli studenti (28%). Una generazione precaria, si è detto. È, effettivamente, così. Una generazione senza futuro. Il 63% del campione ritiene, infatti, che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei genitori. E il 56% ritiene che i giovani, per avere speranza di carriera, se ne debbano andare via. All´estero. Ne sono convinti, per primi, gli interessati: il 76% di coloro che hanno meno di 25 anni. Tuttavia, la precarietà è un sentimento diffuso. Che attraversa tutti i settori sociali. L´insoddisfazione verso la situazione economica e del mercato del lavoro, infatti, oltre che fra i disoccupati, raggiunge il massimo livello tra i liberi professionisti e i lavoratori autonomi. Ed è alta anche fra i tecnici e gli impiegati. Dal punto di vista della classe sociale: inquieta soprattutto coloro che si sentono “borghesia” oppure “classe dirigente”. Non è poi così sorprendente. Il fatto è che non ci sono abituati. Per cui temono di perdere i privilegi di cui dispongono.
Si spiega così la perdita di appeal del “lavoro in proprio”. Ma anche la parallela ripresa dell´attrazione esercitata dal lavoro pubblico (soprattutto nel Mezzogiorno). Nonostante da anni venga stigmatizzato da autorevoli esponenti del governo. Non è che i cittadini provino un´insostenibile voglia di fare i “fannulloni”. È il senso di insicurezza che pervade il lavoro. L´economia. Magari non è una grande novità, potrebbe eccepire qualcuno. È vero, ma non del tutto. Perché fino a poco tempo fa funzionava un meccanismo psicologico che disinnescava gli effetti politici della delusione economica e sociale. Anzi: li rivolgeva a scapito dell´opposizione. Una sinistra “impopolare”. Sempre più in difficoltà nell´intercettare il consenso dei dipendenti privati e dei ceti sociali più precari. Rannicchiata – e quasi accerchiata – dentro il perimetro dei pensionati e del pubblico impiego. Soprattutto degli insegnanti e delle figure “intellettuali”. Da qualche tempo, questa spirale senza fine sembra essere giunta alla fine. Il processo di operaizzazione e di discesa sociale sta producendo – ha già prodotto – effetti politici evidenti. E sembra sempre più arduo, per il governo e per il suo capo, proseguire nella strategia della dissimulazione. Dire, da un lato, che non è vero. Trattare chi predica sfiducia da nemico della nazione. Dell´Italia.
D´altra parte, non è facile scaricare le colpe e le paure della crisi sempre sugli “altri”. Gli immigrati e gli stranieri. Poi, l´euro e l´Unione Europea. Sul piano interno: Roma padrona e il Sud spendaccione. O, viceversa, il Nord egoista. Alla lunga, il meccanismo si è logorato. Difficile dire che la crisi non c´è. Che le cose vanno bene. Che noi stiamo bene. Che bisogna avere fiducia (ora). Che gli operai non esistono. Se mezza Italia, ormai, si sente e si dice operaia. Se i ceti medi e perfino i borghesi hanno paura. Se i giovani pensano di fuggire dal Paese. Se i genitori, per non parlare dei nonni, non hanno argomenti validi per trattenerli. Ed è difficile scaricare le colpe sull´opposizione, che da anni latita. Ma è difficile, per la maggioranza, anche prendersela con il Sud o con il Nord. Spostare i ministeri da Roma a Milano. Visto che in entrambi i casi significa prendersela con se stessa. La Lega del Nord contro il Pdl romano – e del Sud. E viceversa. Così – “forse” – dopo tanti anni, siamo giunti alla resa dei conti. O almeno: all´assunzione di responsabilità. Se piove e fa freddo, se l´orizzonte è scuro. Non può essere – sempre e solo – colpa degli “altri”.
La Repubblica 23.05.11