E’ un vero peccato che la campagna elettorale per il ballottaggio a sindaco di Milano si sia conclusa con una settimana d’anticipo e con un risultato a sorpresa: Letizia Moratti ha perso, ma non è stata sconfitta dal suo competitore Giuliano Pisapia, ma da se stessa. Perché potrà anche riuscire a compiere l’impresa disperata di superare il candidato del centrosinistra, lunedì prossimo, ma a un prezzo che non bisognerebbe mai accettare di pagare, quello di rinnegare il proprio passato politico, le scelte programmatiche fatte e tante volte rivendicate, i valori in cui si è creduto o si è detto di credere e, soprattutto, tradendo la fiducia di coloro che per quei valori l’hanno eletta a loro rappresentante.
I segnali di fastidio e di distacco con i quali i moderati milanesi avevano risposto, col risultato del primo turno, ai toni estremistici e spregiudicati usati dalla candidata di Berlusconi e Bossi alla rielezione a sindaco di Milano, evidentemente, non sono bastati.
Così la Moratti, in questi giorni, ha inanellato una serie di promesse demagogiche che non solo contraddicono le decisioni più significative del suo precedente mandato, ma assumono caratteristiche che, nei cittadini più anziani, ricordano le scarpe spaiate offerte da Achille Lauro ai napoletani degli Anni 50 e, in quelli più giovani, i mirabolanti impegni elettorali dell’Antonio Albanese di «Qualunquemente».
L’Ecopass, la Ztl, le strisce blu e gialle sulle strade di Milano sono il segno più visibile e concreto della passata amministrazione milanese. Decisioni discutibili, certo, ma che sono nate dalla consapevolezza dei problemi d’inquinamento ambientale e di mobilità urbana nel centro storico. Ora, con una contraddizione clamorosa rispetto alle intenzioni dichiarate dalla Moratti, quelle di «raccontare ai cittadini le tante cose buone fatte a Milano», il sindaco uscente le rinnega. Con la sconcertante promessa di condonare le multe dei milanesi che hanno violato le disposizioni da lei stessa impartite.
Quale opinione la Moratti pensa possano avere di questi atteggiamenti proprio quegli elettori moderati che, fedeli al principio del rispetto della «legge e dell’ordine», hanno osservato le regole? A quale Milano si rivolge? Non crede di offendere, così, l’onestà e il civismo dei suoi concittadini? Soprattutto non ritiene di offendere se stessa, il suo passato di impegno pubblico, dalla presidenza Rai al ministero dell’Istruzione? Compiti svolti con risultati controversi, ma sempre con dignità e mai segnati da cotanto cinismo politico.
E’ con amarezza che occorre constatare l’impossibilità di assistere a una battaglia elettorale, a Milano, come si poteva prevedere: tra un galantuomo garantista di sinistra come Pisapia e una gentildonna di destra come la Moratti. E questa volta, non si può essere così ipocriti e falsamente equidistanti da non segnalare per colpa di chi un clima di civile competizione sia stato compromesso. Con altrettanta amarezza dispiace come la grande tradizione liberale, moderata e anche conservatrice di Milano si possa sentire abbandonata. Un passato che ricorda figure di cattolici come Filippo Meda, Gallarati Scotti, Giuseppe Toniolo, e di laici come Luigi Albertini e Giovanni Malagodi.
La deriva finale della Moratti sulla via dell’estremismo verbale e della demagogia elettorale più incontrollata può sorprendere chi credeva di conoscerla, ma corrisponde, purtroppo, agli atteggiamenti della coppia Berlusconi-Bossi di questi tempi. Il primo sembra non aver capito che le mosse a sorpresa, sul calare dell’ultimo gong nella campagna elettorale, possono essere efficaci le prime volte. Non più quando vengono ripetute dopo che gli elettori hanno constatato i risultati di quelle promesse. L’esempio più calzante è quello dell’abolizione totale dell’Ici. Una decisione che ha messo in difficoltà tutti i Comuni, costretti o a tagliare i servizi o a ricevere dallo Stato, attraverso le tasse, rimborsi che si sono tradotti in una sostanziale «partita di giro». Risultati ancora peggiori, proprio nell’opinione dei moderati italiani, hanno altre promesse berlusconiane, come quelle di lasciare mano libera all’abusivismo edilizio in Campania.
Il pericolo maggiore, sul piano nazionale, è, però, un altro. Le necessità elettorali, le traballanti maggioranze governative alla Camera, le incognite di un’ultima parte della legislatura che si presenta molto difficile potrebbero indurre Berlusconi a compiere una tale pressione su Tremonti da costringerlo a indebolire la ferrea difesa dei conti dello Stato fin qui esercitata dal ministro dell’Economia. Con la situazione internazionale che caratterizza questi mesi e che si potrebbe aggravare nei prossimi mesi, a partire dalla tenuta dell’euro, il rischio è grave. Tremonti, infatti, si potrebbe trovare in una posizione, per lui, del tutto insolita. Il suo più fedele sostenitore, Umberto Bossi, potrebbe unirsi al presidente del Consiglio, questa volta, nel sollecitarlo a una linea di minor rigore. Perché, quando i consensi calano, come sono calati quelli della Lega negli ultimi tempi, le promesse s’alzano. A cominciare da quelle più estemporanee, come lo spostamento di qualche ministero a Milano. Perché quella che una volta era una grande capitale morale possa divenire anche una piccola capitale ministeriale.
La Stampa 23.05.11