In questi mesi i segnali di una insofferenza dei ceti imprenditoriali e delle professioni nei confronti dell’operato del Governo, e più in generale della politica, erano stati numerosi. Ultimo, in ordine di tempo, quello dell’Assise generale della Confindustria a Bergamo dove, non a caso, non erano stati invitati i politici per evitare la consueta, stucchevole passerella mediatica in casa d’altri; e dove le critiche all'(in)azione del Governo, pur non gridate, risuonavano a ogni angolo.
La disaffezione che da tempo monta nella borghesia italiana non riguarda solo la maggioranza di governo, ma investe tutta la classe politica. Certo, il voto di Milano attesta un distacco ormai consumato tra centro-destra e ceti produttivi in senso lato. Ma non si può nemmeno parlare di un “cambio di cavallo”. Per quanto Giuliano Pisapia abbia saputo attrarre esponenti illustri dell’imprenditoria meneghina capitanati da una personalità quale Piero Bassetti, l’impressione è che questa componente sociale sia ancora alla finestra, in attesa degli eventi.
Se allora colleghiamo insofferenza diffusa e assenza d’interpreti politici, c’è da chiedersi se siamo alla vigilia di un altro passaggio cruciale, simile a quello di quasi vent’anni fa, agli inizi degli anni Novanta. Allora, di fronte al collasso di una intera classe politica travolta dal disvelamento delle dimensioni gigantesche della malversazione e della corruzione (e non si capisce proprio l’accondiscendenza, se non la disinvolta assoluzione, che oggi circola per quella banda di politici corrotti, responsabili di una montagna di reati e di soldi estorti alla gente onesta), vi fu una reazione virtuosa della società civile.
La borghesia italiana rispose alla “chiamata” impegnandosi in prima persona. Quella attivazione favorì passaggi importanti nel processo di rinnovamento della politica, scanditi dalla promozione di referendum per la riforma elettorale, dalla nascita di nuovi movimenti politici e dall’affermarsi di una nuova leva di amministratori incarnati nei sindaci eletti direttamente. Poi, parte di quell’impegno si cristallizzò in Forza Italia. Settori cospicui dei ceti imprenditoriali e delle professioni delegarono al partito di Silvio Berlusconi la loro presenza politica.
Molta acqua è passata sotto i ponti. La metamorfosi di Forza Italia in un partito squisitamente carismatico, più in sintonia con l’agenda del fondatore che con interessi generali, ha progressivamente allontanato coloro che avevano riposto in quella formazione speranze di un cambiamento virtuoso della politica. Ogni residua illusione è poi tramontata assistendo al reclutamento – per usare un eufemismo – dei cosiddetti Responsabili nella maggioranza e nel Governo.
Ora, crisi economica e crisi politica si stringono – e ci stringono – di nuovo, dopo quasi vent’anni. Anche se l’impegno profuso nel post-Tangentopoli può aver lasciato l’amaro in bocca, di fronte alla stagnazione economica e al declino del berlusconismo (fra l’altro, le 27.972 preferenze del premier impallidiscono di fronte alle 13.247 del capolista pidiessino a Bologna, Maurizio Cevenini: 16,3% contro 18,3%) la borghesia non può sottrarsi dall’esercitare il ruolo che le compete.
È certo più comodo ritirarsi nei propri resort tranquilli e continuare a gestire investimenti e rendite. E non basta nemmeno esercitare a pieno titolo la funzione schumpeterianamente ideale dell’imprenditore creativo, per quanto sia di vitale importanza. Una borghesia degna dell’attributo di classe dirigente ha oggi il compito “morale” d’impegnarsi in una opera di ricostruzione civile della politica italiana.
Il Sole 24 Ore 21.05.11