Negli ultimi anni c’è stato un succedersi di libri dedicati alla nostra scuola intitolati allo «sfascio» , al «fallimento» . E qualcuno non ha resistito alla tentazione di sferrare un attacco agli insegnanti, accusati d’essere fannulloni oppure agitprop. Degli attacchi hanno fatto le spese anche ragazze e ragazzi, autorevolmente dipinti come svogliati e peggio. È giusto un quadro del genere? Con la sua scrittura piacevole Paola Mastrocola ha il merito di spingerci a riflettere sulle possibili risposte a questa domanda. Lei sembra non avere dubbi sulla risposta. La scuola merita di funzionare per le ragazze e i ragazzi che troviamo disponibili ad accogliere il nostro insegnamento: uno su venticinque nella sua classe. Gli altri si arrangino in canali scolastici per gli svogliati e, insomma, «tolgano il disturbo» a se stessi e a noi che vorremmo accrescere il loro sapere. Questa risposta trova consensi. E se i consensi fossero seri e dovessero persistere darebbero una mano a chi di taglio in taglio delle risorse prefigura una scuola ridotta ai minimi termini. Torniamo così a porre una domanda: possiamo fare a meno di una scuola che funzioni invece a pieno regime? Che funzioni per far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola? U na prima risposta ci viene da un imponente lavoro fatto da Robert J. Barrow, Jong Wha Lee e altri studiosi nordamericani. Col sostegno finanziario della Banca asiatica dello sviluppo hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione in centoventi Paesi del mondo tra 1950 e 2010. La loro conclusione dovrebbe togliere ogni dubbio: dai Paesi più poveri ai più ricchi la crescita della scolarità e dei livelli di istruzione è stata un fattore decisivo degli incrementi di reddito dei diversi Paesi. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Tagliare gli investimenti in istruzione significa compromettere il futuro sviluppo anche economico. Hanno dunque ragione i nostri editori che in questi giorni hanno lanciato nelle scuole e nel Paese un appello in difesa della scuola pubblica e l’hanno concluso scrivendo: «Prendiamo sul serio il nostro futuro» . Le serie storiche costruire da Barrow e Wha Lee permettono di capire, dati alla mano, il grande debito che in Italia abbiamo verso la nostra scuola. Nel 1950 nel nostro Paese avevamo in media tre anni di scuola a testa. Già allora la media nei Paesi sviluppati viaggiava sui dieci anni. Il nostro «indice di scolarità» ci collocava tra i Paesi sottosviluppati. Nel 2010 l’indice sfiora i dodici anni di scuola a testa. Sia pure in coda, siamo oggi tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di sviluppo sono a sei anni di scuola a testa. È cresciuto il livello di istruzione e dal rango dei sottosviluppati siamo passati al gruppo di testa. L’Italia della Repubblica ha conosciuto altri fenomeni di crescita. Per non andare lontani dall’istruzione, in questi sessant’anni ci siamo impadroniti al 95%della capacità di usare la nostra lingua nazionale nel parlare, ma qui hanno premuto parecchi fattori diversi: le grandi migrazioni interne, la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, l’ascolto televisivo e, certamente, la scuola. Ma la crescita dell’istruzione la dobbiamo soltanto al fatto che il bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole, sono gli e le insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione. Ma la scuola non poteva e non può tutto. Ragazze e ragazzi usciti di scuola con livelli crescenti di scolarità si sono immessi in una società adulta essa sì povera di sollecitazioni culturali, di luoghi della cultura. E sono andati incontro a processi di dealfabetizzazione che le indagini internazionali hanno impietosamente rivelato: il 38%della popolazione adulta italiana in età di lavoro, si dichiari o no analfabeta, ha gravi deficit di lettura, scrittura e calcolo, e un altro 33%è schiacciato su questa condizione. La scuola ha lavorato e lavora in salita nel portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti, ai test di profitto del programma PISA ci dovrebbe restituire non il 20, ma il 70%di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura. Possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo fare e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e crea. Ma i progressi non sono mai definitivi. Dobbiamo andare più avanti. Investire perché funzioni sempre meglio (ne ha certo bisogno) e affiancarle un sistema nazionale di istruzione permanente degli adulti come avviene negli altri Paesi sviluppati e come chiedono concordemente, ma per ora invano, associazioni di industriali, grandi sindacati e qualche isolato studioso.
Il Corriere della Sera 17.05.11