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"La sostanza di una candidatura di talento", di Giuliano Amato

I consensi da ogni parte d’Europa che hanno portato in dirittura d’arrivo la candidatura di Mario Draghi a presidente della Banca centrale europea alimentano editoriali ricolmi di orgoglio italiano. Condivido l’orgoglio, ma devo anche dire che un po’ mi mette a disagio. Ammettiamolo, è un sentimento più da Paese piccolo che grande, da tifoseria abituata a vedere lo scudetto sul petto di altre squadre, che gioisce come non mai la volta che tocca alla sua. Ma l’Italia non è uno dei Paesi fondatori, uno dei quattro grandi dell’Unione Europea?
Si lo è, e tuttavia la nostra reazione a questa vicenda risponde perfettamente al modo in cui abbiamo sempre vissuto – e sempre è stato percepito dagli altri- il nostro ruolo europeo. Per ragioni storiche e perché raramente i nostri politici e i nostri funzionari hanno saputo immergersi ed integrarsi come altri nella vita comune europea, il nostro peso non è un a priori, è quello che sappiamo darci con le iniziative di cui ci rendiamo protagonisti e la qualità delle persone con cui ci facciamo avanti. Insomma una proposta, o una candidatura, francese o tedesca pesa in primo luogo perché è francese o tedesca. Una proposta o una candidatura italiana pesa soltanto per la sostanza che esprime.
Di qui tanto la legittimità del nostro orgoglio, quanto la sua matrice da Paese, ahimè, di secondo rango. Certo si è che questa volta la qualità del candidato sta pesando di più delle provenienze nazionali. Difficilmente la Germania avrebbe ceduto il passo, se avesse avuto un concorrente all’altezza del nostro. Sarà comunque positivo, non solo per noi ma per l’Europa, se la vicenda si concluderà diversamente dalle altre, nelle quali ha prevalso più chi faceva il nome, che non il merito del nominato. Detto questo, lascio alla cancelliera Merkel di dipingere Draghi agli elettori tedeschi come un prussiano con passaporto italiano. Lo faccia pure, se le serve. Ma risponde semplicemente a una immagine sbagliata dell’Italia l’idea che Draghi non abbia caratteristiche italiane, perché è attento alla stabilità, perché è severo col debito pubblico e perché ha una formidabile preparazione economico-finanziaria.
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di Giuliano Amato So che di quell’immagine non sono responsabili soltanto i tassisti tedeschi che la echeggiano, ma per primi i tanti, i troppi opinion makers italiani che, specializzati nel parlar male del proprio Paese, gli negano anche la soddisfazione di essere orgoglioso di ciò per cui ha ragione di esserlo.
Mario Draghi è uno dei non pochi italiani che, avendo tempra e talento, è riuscito a farli valere non solo all’estero, ma anche in patria. E che in patria ha partecipato a vicende importanti, contribuendo a impostarle e assumendone la sua quota di responsabilità. È parte insomma della nostra storia e non è un italiano per caso. Io ho lavorato per anni con lui. Lo conobbi quando era direttore esecutivo per l’Italia alla Banca mondiale negli anni 80, e lo ritrovai direttore generale del Tesoro lungo tutti gli anni 90, alle prese con la difficile gestione del debito pubblico e con le privatizzazioni che segnarono l’azione di governi nei quali ebbi io stesso responsabilità primarie. Draghi è uno che se pensa che hai torto, ti dimostra garbatamente che è così, senza farsi frenare da ragioni di rango o di opportunismo. Nel fornire soluzioni, non si ferma mai prima del dettaglio tecnico che la rende praticabile, ma la colloca sempre nel contesto degli effetti più generali che potranno venirne. Sono rare le persone che padroneggiano insieme entrambe le angolature. È infine attentissimo al suo ruolo istituzionale e si fa guidare, senza esorbitanze egotistiche, dalla missione che gli compete.
Quest’ultimo è un punto del quale è bene che noi italiani siamo consapevoli, per evitare di nutrire sull’auspicabile presidente della Bce Draghi aspettative ultronee e sbagliate. L’Italia va incontro ad anni difficili, anni nei quali ai Paesi con debito superiore al 60% del Pil verrà chiesto di ridurlo ogni anno di un ventesimo della quota eccedente. Con un debito come il nostro, che arriva al 120% del Pil e ha quindi una quota eccedente di ben il 60%, un ventesimo l’anno significa manovre annuali del 3% del nostro Pil.
Si può ammazzare l’asino prima che impari a vivere senza nutrirsi con manovre di tanta severità. A meno che esse non siano accompagnate da un corale e granitico impegno della nostra comunità nazionale per la crescita. È stato proprio il vicedirettore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, a calcolare che con una crescita costante al 2% noi potremo arrivare senza danni al traguardo. Ed è il governatore della Banca d’Italia a insistere da tempo sulla ineludibile necessità di crescere per non essere schiacciati dal debito e per non ritrovarci, dopo decenni di migliorato benessere, in una rinnovata stagione di declino e di arretratezza. «All’inizio del Seicento, gli stati della penisola italiana erano ancora tra i più ricchi del pianeta – ha ricordato Draghi in una sua lezione tenuta a novembre ad Ancona in memoria di Giorgio Fuà – ma tre generazioni più tardi l’Italia era un Paese sottosviluppato».
Ebbene, è importante che il futuro presidente della Bce manifesti una tale consapevolezza, ma attenzione. Non è e non sarà suo compito attivare la crescita. È e sarà un compito invece delle istituzioni politiche italiane ed europee e nessuna supplenza è consentita da parte della Banca centrale. Verso di essa c’è a volte insofferenza, specie quando la si confronta con la Federal Reserve americana e si coglie in questa un maggior protagonismo nelle politiche espansive. Ma l’articolo 282 del Trattato sul funzionamento della nostra Unione è inequivoco e nessuno ha mai osato modificarlo. «Obiettivo principale della Banca è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo tale obiettivo, essa sostiene le politiche economiche generali dell’Unione per contribuire alla realizzazione degli obiettivi di questa».
E allora, se con un presidente come Draghi la Bce sarà sicuramente pronta a “sostenere” le politiche per la crescita che prendano corpo in Europa e nei singoli Paesi che più ne hanno bisogno, ciò non sarà mai a scapito della stabilità e mai andando oltre quella concertazione interistituzionale prevista dal Trattato, sulla premessa che ciascuno è portatore in essa del proprio, specifico ruolo; una premessa a cui Draghi è sensibile non meno che alla necessità della crescita.
All’orgoglio uniamo allora un impegno, un impegno di noi tutti e di chi, a parte Draghi, rappresenta l’Italia in Europa. Tornare a crescere è per noi una necessità vitale e conquistarci un futuro è ormai ben più importante che difendere il presente. Senza cambiare si fa così presto a scivolare indietro. E fra tre generazioni potremmo non averlo più un italiano di cui essere altrettanto orgogliosi.

Il Sole 24 Ore 15.05.11