Ripensare tutto l’insieme delle proteste che, dal 2008 fino al 2010 hanno attraversato il mondo della scuola e dell’Università provoca, sia detto senza retorica, una certa tristezza. Si tratta infatti di un grande movimento, frastagliato, frammentato in mille pezzi, seppur deciso e convincente, che non ha prodotto grandi risultati effettivi nei confronti del governo e di chi, in questi anni, ha orgogliosamente rivendicato un piano di smantellamento del sistema scolastico nel suo significato più ampio.
Tuttavia nel tempo si sono inseguite analisi più o meno ben costruite sugli eventi del 14 dicembre a Roma; si è discusso e ci si è interrogati sulla crisi di una generazione, si è parlato e si è scritto sul disagio giovanile. Pochi però ricordano una semplice realtà: tutto è nato non da un disagio giovanile, bensì da un disagio maturo, si potrebbe dire plurigenerazionale: quello dei ricercatori universitari, di età compresa tra i 25 e i 45 anni riguardo al destino dell’università pubblica e al progetto di riforma che ha preso corpo e si è definito tra il 2008 e il 2010.
Non c’è bisogno di andare molto indietro nel tempo per ricordare che nel giugno 2008 sono cominciate le analisi e le mobilitazioni dei ricercatori. Il governo, annunciando il Decreto Legge n. 112, tagliava in cinque anni circa un miliardo e 400 milioni di euro di finanziamenti alla ricerca e al sistema universitario (sui 7 miliardi annui previsti dal Fondo di Finanziamento Ordinario), rendeva possibili le fusioni di atenei e la nascita di università-fondazione, cominciava a scaldare i motori per quella “grande riforma” della docenza che era stata tentata, con poco successo, anche dal ministro Moratti pochi anni addietro.
I ricercatori universitari di ruolo, circa 25.000 studiosi e intellettuali che reggono, da soli, il 39% della didattica universitaria, hanno manifestato sin da subito il loro disagio. Hanno cominciato a fare lezioni in piazza, hanno informato gli studenti della situazione, hanno realizzato una saldatura generazionale che, per pochi mesi, ha reso possibile l’onda del 2008. Nessuno ormai ricorda più che alla base delle proteste degli studenti nel 2008 ci fossimo noi ricercatori.
Il disagio, espresso a mezza voce ma con toni via via crescenti nei consigli di facoltà e di Dipartimento per i tagli devastanti, è diventato alla fine un fenomeno che ha visto presenti, soprattutto, ricercatori e studenti, con pochi ordinari e associati consapevoli dei danni e delle prospettive sempre più fosche. Un ordinario di mezza età – quindi un “giovane” – è stato udito un giorno dare questa spiegazione ai colleghi più giovani: «vedete – diceva – il sistema si è sviluppato in maniera così perversa, accumulando così tanti errori e favoritismi, che se oggi ci penalizzano fanno proprio bene. Meritiamo poco per come ci siamo comportati fino a oggi, e siamo coscienti che le critiche al sistema universitario sono fondate». Non si trattava di una ammissione di colpa individuale, bensì di un paradigma generazionale che coinvolgeva non solo i responsabili del degrado (ordinari e rettori in prima fila), ma tutti, indistintamente. Studenti e professori, ricercatori e dottorandi, personale tecnico amministrativo e precari della ricerca.
A questo psicodramma del rimorso collettivo i ricercatori non ci sono stati. Sono scesi in piazza, hanno organizzato quella forma di protesta così ben visibile che sono le lezioni in piazza. E poi cortei, proteste, intemperanze anche – come è naturale che avvenga – fino a che la fiammata di protesta sul decreto legge 112 si è affievolita, le telecamere si sono spente, i cortei si sono sciolti, il decreto legge è stato convertito in legge, la 180/2008.
Sono seguiti mesi di silenzio preoccupato da parte degli studenti – la cui capacità di mobilitazione è notoriamente intensa ma di breve durata – mentre i ricercatori, superato l’iniziale smarrimento e confrontati con la domanda “e adesso?”, continuavano a lavorare sui progetti di legge che filtravano dal palazzo, sulle prospettive di opposizione legale, sui testi che, via via, venivano predisposti da personalità dell’area di governo. Sia nei documenti del senatore Valditara (una prova di riforma che ormai pochi ricordano), sia nelle prime bozze di quello che sarebbe diventato noto come “Disegno di Legge Gelmini”, si percepiva un’intenzione abbastanza chiara nei confronti dell’insegnamento universitario, perfettamente in linea con quanto predisposto nel giugno 2008:
confermare la drastica diminuzione del finanziamento del sistema nel suo complesso;
amplificare la sfera di discrezionalità e di potere direttivo di una parte dei docenti, gli ordinari anziani (concorsi e governo degli atenei saranno di fatto nelle loro mani senza alcuna possibilità di interferenza da parte delle altre componenti della docenza, con buona pace di chi parla a vanvera di riforma contro i baroni);
ripartire una parte dei finanziamenti disponibili sulla base della valutazione della qualità della ricerca.
Quest’ultimo punto tuttavia è stato inserito senza predisporre organismi di valutazione prima della ripartizione, cosicché il sistema si sarebbe basato, per i primi anni, su procedure di valutazione essenzialmente autoreferenziali (un’auto-valutazione – self-evaluation – che difficilmente sarà negativa). Ciliegina sulla torta, le retribuzioni dei docenti e dei ricercatori venivano drasticamente decurtate, con effetti dolorosi soprattutto – ancora una volta – sui ricercatori, gli anelli deboli e più esposti della docenza.
In questo contesto, i ricercatori di ruolo – istituiti nel 1980 per fare solo ricerca e impiegati, ormai da anni, anche per fare didattica principale, non prevista tra i loro compiti – hanno deciso di alzare di nuovo la voce, di protestare, di lanciare un allarme. Lo hanno fatto con gli strumenti che gli sono propri: la testa e la scrittura, la riflessione e l’analisi. Hanno preso il testo di legge, lo hanno sezionato, hanno messo in evidenza i punti critici, hanno cominciato a parlarne con i colleghi anziani (associati e, in molti casi, ordinari non schierati per un «sì» acritico alla riforma), spesso svolgendo un fondamentale ruolo di orientamento per tutti i colleghi. Gruppi di studio sono sorti un po’ ovunque, negli Atenei grandi così come in quelli più piccoli. Gruppi di volontari che ormai conoscono le varie fasi e i contenuti della Gelmini a menadito e che potrebbero agevolmente dirigere il Ministero di Viale Kennedy.
Tra noi ricercatori si discuteva e ci si accalorava, mentre i colleghi associati e ordinari sembravano tuttavia impermeabili a qualsiasi riflessione. Il massimo che si poteva cavare da loro era quanto si era sentito già un anno prima: «be’, sì, è una riforma pesante, però considerate quanto abbiamo approfittato del sistema, se adesso arriva un po’ di rigore la cosa è positiva…».
Di nuovo, come nel 2008, i ricercatori non hanno accettato di giocare un ruolo in questa commedia degli equivoci ma, molto più prosaicamente, hanno dichiarato che si sarebbero attenuti ai compiti previsti dalla legge, rifiutando qualsiasi forma di didattica non dovuta da parte del ricercatore. Questa fase è cominciata nel tardo gennaio 2010, e ha visto il massimo della mobilitazione tra aprile e maggio. Il 29 aprile, a Milano, veniva fondata la “Rete 29 Aprile”, fatta da ricercatori per i ricercatori, senza alcuna partecipazione di studenti, né componenti del sindacalismo di base, né esponenti dei centri sociali. Un’assemblea di circa 300 ricercatori ha discusso per un’intera giornata su una bozza di documento poi pubblicato su www.rete29aprile.it; nei giorni successivi la rete ha costruito una dirigenza del movimento, costituita da un coordinamento nazionale composto da uno o due rappresentanti per ogni ateneo coinvolto (i ricercatori che hanno aderito alla rete 29 aprile appartengono a circa 40 università pubbliche); il coordinamento ha quindi a sua volta eletto una giunta di otto persone che ha condotto fino a oggi la mobilitazione, gestito i rapporti con la stampa e le forze politiche, tenuto i contatti con altre realtà associative e sindacali.
In quella fase, ancora non vi erano segnali forti di interessamento da parte della galassia dei movimenti studenteschi né, in quel momento, quei contatti erano centrali per la Rete: la protesta era vissuta come una questione molto tecnica, e del resto una parte del movimento della “Rete 29 aprile” riconosceva qualche elemento positivo all’interno del progetto governativo, pur respingendone l’impianto complessivo. Ciò che però rendeva assolutamente sfiduciati i ricercatori era l’impossibilità di confronto con chi quel testo lo aveva preparato. Mentre anche la Presidenza della repubblica dava ascolto alla Rete 29 Aprile, riceveva e commentava i suoi documenti, mostrava un interesse non di facciata; mentre l’opposizione dialogava con la Rete, non senza qualche scontro anche duro, mancava invece del tutto un confronto di qualsiasi genere con il governo. L’autoreferenzialità e l’arroganza del ministro sono stati il controcanto continuo a qualsiasi apertura, suggerimento e iniziativa della Rete. Volta per volta i suoi componenti sono stati definiti “baroni” (perché criticano la riforma che invece i veri baroni accolgono a braccia aperte), fannulloni (perché, evidentemente, se perdono tempo a studiare la riforma non fanno ciò per cui sono pagati), manipolatori degli studenti. Gli studenti invece non sono manipolabili, forse hanno troppa foga nel far discendere una complessiva difficoltà generazionale da una riforma del sistema universitario, ma certo non sono stati manipolati in alcun modo, tanto meno dai ricercatori, che sono per loro insegnanti, formatori, forse talvolta più vicini per motivi generazionali. Anzi, verrebbe da dire che l’equazione che ormai domina: riforma gelmini=furto del futuro è uno slogan efficace ma che non corrisponde alle intenzioni dei ricercatori nel momento in cui è cominciata la protesta.
Gli studenti protestano perché percepiscono il vuoto che sta davanti a loro, una società senza tutele, senza opportunità, dominata dalla tendenza a non garantire diritti; protestano guardando avanti con negli occhi quelle situazioni e quelle prospettive così ben rappresentate nel film Generazione mille euro. I ricercatori, che hanno cominciato a protestare prima di loro, lo fanno guardando anche indietro, a un sistema che conoscono e che hanno imparato a criticare da più tempo di loro.
Sul piano pratico non è una grande differenza, sul piano ideale invece sì.
Tuttavia la Rete è convinta che senza una saldatura tra le due proteste, quella esistenziale degli studenti e quella culturale dei ricercatori/formatori, nessuna delle due andrà molto lontano.
Né loro, che verranno riassorbiti agevolmente nella placenta del familismo italiano che tutto cura e tutto sana, né i ricercatori che forse verranno promossi per farli stare zitti, e con gli anni perderanno anche la voglia di spendersi per gli altri come pensano di star facendo adesso. Questa strada, insomma, va percorsa insieme. Abbiamo tutti diritto al sogno, che nessuno ce lo rubi.
* Rete 29 aprile