Se negli ultimi dieci anni l’Italia è cresciuta molto meno di Europa e Stati Uniti, una ragione sistemica di qualche serietà sulla quale interrogarsi ci deve pure essere. Perché l’Italia non cresce? Perché quando le cose vanno male, da noi vanno peggio e quando vanno bene, da noi vanno meno bene?
Per spiegare in profondità il significato di due interrogativi così impietosi, Fabrizio Galimberti, dalle colonne di questo giornale, si è affidato a Voltaire: «Giudica un uomo dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte». Parafrasando Voltaire, potremmo dire: giudica un Paese dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte.
Tutti, ma proprio tutti, hanno un pezzo di responsabilità se siamo costretti a ripeterci ossessivamente queste due domande. E sarebbe bene che ognuno cominciasse a chiedere prima a se stesso, piuttosto che agli altri, in che cosa ha sbagliato e che cosa può (e deve) ancora fare.
Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha le sue ragioni per chiedere agli imprenditori italiani di cominciare a fare qualcosa loro per il Governo e non di continuare solo ad aspettare che sia il Governo a fare qualcosa per loro. Nel frattempo, lui e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che hanno il merito di avere difeso la stabilità dei conti pubblici durante la crisi globale, dovrebbero, però, spiegare non agli imprenditori ma ai loro elettori perché, dal ’94 a oggi, non sono riusciti a fare, ad esempio, la riforma fiscale e perché esitano così tanto sul terreno delle liberalizzazioni.
Ricorda, presidente Berlusconi, la lavagna di Porta a Porta, il contratto con gli italiani, e la promessa di ridurre a solo due aliquote, al 23% e al 33%, il prelievo dell’Irpef dalle buste paga? Ricorda la legge obiettivo e i cantieri che, di fatto, ha sempre solo annunciato di aprire? Ricorda, ministro Tremonti, l’impegno con gli elettori a cambiare la scuola e l’università? Riconosciamo che su questo le riforme le avete fatte, ma lei ha una dote inossidabile, la coerenza, e la esercita ostinatamente nel negare sempre quelle risorse indispensabili perché le riforme varate si attuino davvero: è troppo chiedere anche a lei un sussulto di buona volontà perché il merito salga in cattedra?
Il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha avuto lo scomodo coraggio di rimettersi in gioco in una operazione verità chiamando oggi a raccolta a Bergamo migliaia di imprenditori, energie e forze vitali di una borghesia produttiva che affonda le sue radici nel capitalismo familiare italiano. Ci permettiamo di darle un consiglio: li ascolti tutti, prenda appunti, raccolga le sacrosante richieste che formuleranno agli altri, dalle forze politiche al sindacato, dalle banche agli amministratori del territorio, ma poi cominci davvero a chiedere a se stessa, come leader degli industriali, e ai singoli imprenditori quello che sa di poter dare e di dover esigere. Perché si esita a immettere capitali propri per rafforzare i patrimoni societari e affrontare la sfida non più eludibile della dimensione? Perché si ha così tanta paura di «managerializzare» le proprie aziende e di affidarne la guida a chi è del mestiere? Gli uomini migliori, quando percepiscono di non potere mai diventare numeri uno (talvolta per fare spazio a eredi non all’altezza) prima o poi lasciano le aziende e l’Italia.
A questo punto, è chiaro che la sfida per la classe imprenditoriale è quella di consolidare, nei fatti, peso e ruolo di classe dirigente italiana. Maggioranze politiche di tutti i colori si sono infrante contro il muro del debito pubblico e del suo fardello di tassi di interesse. Un capitalismo degno di questo nome deve contribuire a ridefinire, con la sua azione, i confini dello Stato, deve sapere offrire le sue intelligenze e i suoi capitali per innovare e gestire le grandi reti di servizi che languono, deve imporsi di operare concretamente per liberalizzare e modernizzare il Paese.
Forse, se si prendesse coscienza che il tempo è scaduto per tutti, si potrebbe ritrovare la forza di uscire dalla deriva in cui si è più o meno consapevolmente precipitati. Una deriva che tocca e scuote quotidianamente i beni più preziosi e, cioè, il decoro e l’efficienza delle istituzioni. A ben vedere, c’è qualcosa di profondamente etico in quel pragmatismo del fare che ha segnato altre stagioni e che chi ha a cuore davvero il futuro dei nostri figli deve imporsi di ricostituire. Ognuno, per la sua parte. A tutti i costi.
Il Sole 24 Ore 08.05.11