Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è dimostrato ancora una volta l´autentico custode della Costituzione e delle regole, ovvero dell´interpretazione parlamentare – l´unica che la Carta consente – della politica italiana. Con l´osservare che i nuovi sottosegretari appartengono a un gruppo politico che non esisteva al momento delle elezioni, e che quindi il premier devono presentarsi in Aula a riferirne, e che i presidenti delle Camere possono considerare se il Parlamento debba rilegittimare col voto di fiducia quello che a tutti gli effetti è un nuovo governo, il Capo dello Stato esercita la difesa attiva, non meramente notarile, della Costituzione.
Questa difesa consiste più o meno in questo ragionamento: se è vero che parecchi parlamentari – sulla base del principio costituzionale del mandato libero e dell´indipendenza dell´eletto dagli elettori – hanno maturato l´intimo convincimento di uscire dai partiti nelle cui liste sono stati eletti, lo possono certamente fare. Ma se danno vita a un nuovo gruppo parlamentare, e se ora questo gruppo, dopo avere ripetutamente votato insieme alla maggioranza, entra a far parte del governo, allora sarebbe necessario che il Parlamento tornasse a votare la fiducia al governo. Che è nuovo non perché ci sia stata una crisi formale, ma perché è politicamente non solo sorretto da una nuova maggioranza ma composto da nuovi partiti.
I numeri per il voto, se ci sarà, presumibilmente si troveranno: a questo, del resto, servono i Responsabili, che appunto così si guadagnano la ricompensa ministeriale. Ma il valore politico del gesto di Napolitano si misura in opposizione – implicita ma evidentissima – alla vera ideologia politica che anima Berlusconi. Che da sempre, oltre che ostile ai magistrati e alle istituzioni di garanzia come la Corte Costituzionale, è anti-parlamentare – si ricordino le proposte di ridurre il voto ai soli capigruppo, nonché la polemica ininterrotta verso “il teatrino della politica” – , ed è tutta spostata verso il rafforzamento dei poteri del governo e soprattutto verso la dimensione elettorale, interpretata in senso populistico-plebiscitario. Ovvero, per Berlusconi le elezioni sono il momento della verità in cui un popolo – spaccato in due dalla sua propaganda – si conta, e conferisce al Capo eletto (l´Unto del Signore) tutto il potere, facendone il dominus delle istituzioni. Cioè non solo del governo – come se si fosse eletto direttamente il premier – ma anche del Parlamento: che in quest´ottica è uno spazio subalterno, di servizio, perché la “vera” espressione della sovranità non sono per Berlusconi i parlamentari ma colui che – come individuo singolo – è risultato vincitore delle elezioni. Il Parlamento, semmai, è una “spoglia”, un insieme di “posti” con cui, a spese dei contribuenti, si compensano i seguaci (che una legge pessima vuole siano blindati in una lista decisa dal Capo).
Nessuna centralità del Parlamento, quindi, ma solo supremazia (sovranità) del leader vittorioso. La centralità del Parlamento – di cui l´indipendenza dell´eletto è il cuore, poiché quella indipendenza significa che il baricentro della politica è nell´istituzione-Parlamento e non negli interessi sociali in grado di far eleggere questo o quello – è sempre stata respinta da Berlusconi, che alla mediazione preferisce l´immediatezza, alla discussione la decisione. Solo in un caso quella centralità – con l´indipendenza del parlamentare che ne consegue – è stata difesa: cioè nella fase in cui si è proceduto al “recupero” dei parlamentari per ricostituire la maggioranza, vulnerata dall´uscita di Fini e dei suoi. A quel punto, a giustificare i molti movimenti di molti parlamentari, si è fatto sentire un debole accenno al mandato libero e ai valori istituzionalmente fondanti del liberalismo: accenno incongruo, spaesato, strumentale al libero dispiegarsi della vera idea e della vera pratica del potere che ha Berlusconi: il dominio incontrastato, con ogni mezzo, per affermare la propria volontà. Si diceva “mandato libero” e si doveva intendere “compravendita” – almeno altro con le cariche nel governo che ora, a riprova, vengono elargite – .
Il capo dello Stato ha quindi fatto quello che era in suo potere per ridare dignità alle istituzioni, ovvero per ribadire che il Parlamento non è nella disponibilità del premier, non è lo spazio delle sue scorribande indisturbate; che è soggetto e non oggetto della politica. Che quindi il Parlamento deve prendersi la responsabilità dei responsabili, non limitarsi a registrarne l´ascesa agli ambìti posti di sottosegretari. Vedremo se altri si prenderanno a cuore quella dignità, che è anche la dignità di tutti i cittadini.
La Repubblica 07.05.11